Fall, la recensione

Accetando la propria natura di film-dispositivo Fall marginalizza le velleità intimiste al di là della sua portata e vende bene la vertigine

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Fall, il film in uscita in sala il 27 ottobre

Ci sono registi innamorati della possibilità di portare il cinema dove non è mai stato e altri che invece sono innamorati del meccanismo, di quello che si può fare con l’audiovisivo andando nella medesima direzione degli altri, aumentando il più possibile l’efficacia. Così fa Fall, classico film di tensione con persone intrappolate non diverso da Paradise Beach, Frozen o il nostro Mine, quelli in cui lo stallo fisico è fonte di idee e suspense ma poi anche metaforone di uno stallo psicologico, e in cui la salvezza personale è anche superamento di qualcosa. Quello che conta qui non è mai l’effetto sorpresa (che pure, per senso del dovere e per regolamento, va cercato) ma il congegno filmico, il fatto che si crei o non si crei quella tensione.

Fall fin dal titolo lo promette con una certa insistenza e si adopera benissimo per arrivare al massimo della vertigine su schermo. Come in Cliffhanger la storia è messa in moto da un incidente durante una scalata, Becky perde il suo fidanzato davanti agli occhi dell’amica Shiloh. Sarà proprio Shiloh che, passati i classici mesi come recita la sovrimpressione, convince Becky che per superare quel trauma e ricominciare a vivere (attenzione che qui c’è il salto carpiato) deve compiere con lei una scalata molto meno sicura, più stupida e mai tentata prima. Insieme salgono sulla cima di una torre radio da 600 metri e regolarmente arrivate sulla minuscola piattaforma che sì trova in cima rimangono bloccate.

La svolta di Fall sta tutta nell’aver accettato la propria natura di macchina della vertigine e film-dispositivo di tensione e quindi aver lavorato su due direttrici: la maggior verosimiglianza possibile (non è stato girato a 600 metri di altezza ma a 20 metri sopra una collina, in modo che l’orizzonte della vallata fosse effettivamente lontano e basso) e una recitazione che più che veicolare sentimenti, emozioni e complessità interiore, ha il compito di vendere la paura, vendere la tensione e il pericolo. Ci riescono Grace Caroline Currey ma soprattutto Virginia Gardner, con una dedizione encomiabile alla causa. 

Non riusciranno a fare il miracolo e annullare le assurdità della trama o le due svolte di sceneggiatura, una più inutile dell’altra, come non riusciranno ad annullare le velleità di commento alla società della rappresentazione (Shiloh vuole tentare la scalata per accumulare follower sui suoi profili social e per questo mette in evidenza la scollatura, in realtà attirando solo più attenzione al film stesso e mettendo il corpo più al centro di questa operazione e non del canale social di finzione) ma avranno il merito di aver contribuito ad aver azionato uno degli interruttori per ansia maggiori della stagione

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