Falchi, la recensione
Preoccupato di raccontare gli struggimenti interiori dei suoi personaggi, Falchi si dimentica subito di essere un film di genere
In ambienti luridi e devastati, rovinati dall’incuria, in strade marginali o su spiagge che non hanno niente di paradisiaco e rilassante, durante giornate che non hanno un briciolo di sole e quindi di speranza ma più che altro in notti di neon, due poliziotti della squadra Falchi (quelli che combattono la criminalità di strada), si struggono di dolori interiori.
Non c’è un vero e proprio intreccio in Falchi, è la storia speculare di uno dei due poliziotti che si affeziona ad una massaggiatrice cinese e dell’altro che si affeziona ad un cane che dovrebbe addestrare a combattere, questo affezionarsi creerà dei problemi. Ma molto lentamente.
Talmente Falchi è a disagio con il proprio statuto che, cosa incredibile, anche due attori solitamente solidissimi come Fortunato Cerlino e Michele Riondino sono totalmente implausibili e fuori luogo. Lo sono proprio dalla prima inquadratura, in cui sembrano una cattiva imitazione dei duri del cinema, perché la maniera in cui sono inquadrati, quella in cui sono posizionati nell’inquadratura, ma anche le loro pose e la relazione con l’ambiente si avvicinano più alla parodia che alla serietà del genere poliziesco.
Al contrario di quel che accade nel vero cinema di genere in Falchi la prima preoccupazione non è raccontare una storia piena di eventi ma raccontare dei personaggi come accade nel cinema drammatico d’autore. Un poliziesco avrebbe raccontato il lavoro dei Falchi e facendo questo, nel migliore dei casi, avrebbe fatto emergere che effetto questo abbia su di loro. Il film di Toni D’Angelo racconta direttamente l’effetto che il lavoro ha sui Falchi, con il minimo di sindacale di azione.