Fair Play, la recensione

Chloe Domont con Fair Play mette in scena un thriller a tratti angosciante ma narrativamente ambiguo, in cui la denuncia verso un mondo maschilista si accartoccia goffamente nella scrittura di un antagonista stereotipato.

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La recensione di Fair Play, disponibile su Netflix dal 6 ottobre

Emily (Phoebe Dynevor) e Luke (Alden Ehrenreich) sono una coppia affiatata e passionale. Entrambi lavorano presso un hedge fund newyorkese, ma le regole aziendali gli impediscono di avere una relazione. Il loro recente fidanzamento deve perciò rimanere segreto, ma quando Emily surclassa Luke con una promozione stellare, questo mostra un’invidia e una rabbia che mettono in luce il suo sessismo latente, divenendo violento e manipolatorio.

Chloe Domont, regista e sceneggiatrice, con Fair Play mette in scena un thriller a tratti angosciante ma narrativamente ambiguo e confuso, in cui la denuncia verso un mondo maschilista (la finanza come exemplum per qualsiasi altro ambito della società) si accartoccia goffamente nella scrittura di un antagonista stereotipato.

Fair Play in realtà ha alla base una dinamica piuttosto interessante: nel momento in cui Emily diventa capo di Luke vorrebbe aiutarlo a fare la scalata aziendale, ma all’opposto il compagno sembra sempre sul punto di volerla sabotare. Questa situazione altamente conflittuale e non priva di possibilità narrative (il gioco tra amore e lavoro, pubblico e privato, la disparità tra sessi) non sfrutta però mai il suo potenziale. Per almeno metà film, infatti, Fair Play si ostina a ripetere l’ambiguità di Luke senza farlo mai agire, declinando questa volontà di mistero in una serie di scene che non aggiungono nulla alla nostra conoscenza dei personaggi.

Quando qualcosa comincia finalmente ad accadere, ecco però che lo stereotipo, per quanto velato e non plateale, prende il sopravvento. Per quanto infatti Fair Play proponga (da quel punto) dinamiche piuttosto angoscianti, ci faccia temere sinceramente per i personaggi e chiedere cosa possa succedere, la premessa dello stupore non viene mai soddisfatta e anzi - cosa peggiore - quello che ne si ricava è il ritratto di una mascolinità ferita e violenta che non sa dirci nulla se non quello che ideologicamente vuole rappresentare.

Luke è un personaggio-fantoccio, uno strumento che il film usa per veicolare un messaggio: avulso dalla sua stessa storia, nella scrittura di Domont questo, più che evolversi rispetto alle premesse e mostrarci come l’invidia, il sessismo e l’arrivismo si riversino nella relazione con Emily, sembra dover per forza diventare completamente negativo solo per permettere al film di veicolare il suo messaggio.

Il film quindi cresce solo in intensità e mai in complessità. Parimenti, Emily sembra scritta di conseguenza al personaggio di Luke, mostra un’agentività limitata (e anch’essa ripetitiva), incapace di raccontarci il suo disagio e la sua complessità. Non si tratta qui di faciloneria, perché gli elementi buoni ci sarebbero tutti: si tratta di vera confusione narrativa, che infatti non può che compiersi in un finale goffo, bisognoso di racimolare in pochi minuti un’idea di femminilità padrona del suo destino talmente improvvisa che rischia, al contrario, di diventare revanchismo esagerato verso un uomo-vittima. Proprio il contrario di quello che il film voleva dire. 

Siete d’accordo con la nostra recensione di Fair Play? Scrivetelo nei commenti!

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