La recensione di Fabbricante di lacrime, l'adattamento del romanzo di Erin Doom, in uscita il 4 aprile su Netflix
Non doveva per forza andare così. Fabbricante di lacrime è stato il libro di maggiore successo in Italia nel 2022, viene da Wattpad (piattaforma di letteratura dal basso) ed è stato autopubblicato dalla sua autrice che si firma Erin Doom, prima di essere acquistato e ripubblicato da Magazzini Salani. È quindi in tutto e per tutto un fenomeno simile a quello di Tre metri sopra il cielo, letteratura romantica principalmente per ragazze, non troppo sofisticata ma estremamente efficace, che vive da sola e il mondo editoriale intercetta. Un romanzo realmente popolare e capace di dire qualcosa a molte persone, a prescindere dalla sua qualità. Il film (inevitabile) che Colorado ne ha tratto e ha affidato ad Alessandro Genovesi non è però la stessa operazione del Tre metri sopra il cielo che Cattleya affidò a Luca Lucini, non si fonda su un professionismo dei tecnici, non ha per protagonisti attori professionisti (per quanto giovane, Riccardo Scamarcio usciva dal Centro sperimentale), non ha valori produttivi adeguati alle ambizioni e soprattutto non ha una solidità registica, recitativa e di ritmo che possano sostenere, se non proprio migliorare, una sceneggiatura fondata su cliché e una mortale sequenza inarrestabile di scene madri.
Fabbricante di lacrime, il film, cavalca gli aspetti peggiori della trama che deve adattare. Ne sottolinea fin da subito la componente ottocentesca con l’orfanotrofio in cui i due protagonisti sono cresciuti ritratto come in una versione fuori dal tempo di un feuilleton (dolci bimbi in una terribile istituzione violenta), insiste sul melodrammatico (come se ce ne fosse bisogno) sottolineando che ce ne sono alcuni “che nessuno vuole” e racconta tutti i sentimenti a parole, spesso con voce fuori campo. Quando i due protagonisti vengono adottati dalla medesima famiglia, ormai adolescenti, e quindi diventano fratelli benché non lo siano e anzi siano attratti l’uno dall’altra, invece non c’è grande stupore.
Nel complesso tutto è trattato con il tratto grosso che appartiene più agli shojo manga e quindi agli anime romantici che ne vengono tratti, con sorprese sconvolgenti, sentenze inappellabili e immagini idealizzate (il protagonista sembra saper intonare solo una melodia al pianoforte, ovviamente sensibilissima, e farlo solo davanti a finestre) in cui ogni dettaglio sta lì per esternalizzare l’animo dei personaggi. Suonare il piano non è qualcosa che i personaggi fanno, per esempio, ma qualcosa che li definisce, anche se poi in maniere molto generiche. Ma poi dei manga non ha la capacità di usare quell’impiante iperbolico per raccontare qualcosa, né un ritmo o una perizia tecnica che sopperiscano alle assurdità (tutta la scena del salto dal ponte è un disastro, incluso l’inspiegabile andare a fondo di lui invece che galleggiare).
Al netto di una recitazione pessima e per giunta poco curata (si veda la disposizione degli attori nelle scene), dialoghi terribili in cui ognuno racconta ciò che vediamo o quello che sente e una cura produttiva bassissima (anche i poster nelle camere dei personaggi sono generici e portano scritte tipo “Live Music”), la parte sconfortante di Fabbricante di lacrime è che non riesce mai a portare a termine il suo obiettivo, limitandosi a proporre la scomposta eccitazione nella testa di chi racconta la storia senza mai farla diventare eccitazione comunicata a chi la ascolta. E anche il fatto che il finale porti con sé una morale (già una resa incondizionata di per sé) è nulla in confronto alla confusione con cui questa morale viene espressa: “Il lupo è cattivo perché qualcuno ha deciso che è così. E se tu sei il lupo non posso immaginare una favola senza di te”. È l’eterno topos dell’amore che nasce dalla sofferenza e dai tormenti (perché quel tipo di passione estrema alimenta l’altra), ma trattato così ne esce depotenziato e anche l’immancabile malattia quando si presenta è più l’ennesima tegola sulla testa che una svolta straziante.