Explanation For Everything, la recensione | Festival di Venezia
Diretto da Gábor Reisz, Explanation for Everything fa il gioco del cinema dei punti di vista di Hirokazu Kore’eda, e pur non trattenendone la medesima complessità riesce ad elaborare una grande riflessione sull’incomunicabilità e su come il politico coinvolga il quotidiano anche ai livelli più inaspettati.
La recensione di Explanation for Everything, vincitore del premio come miglior film nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia 2023
Il film si gioca tutto su livelli incrociati di narrazione e punti di vista: diviso infatti per giorni, lungo una settimana, a loro volta osservati dalla prospettiva di più personaggi (il figlio Abel, suo padre, l’insegnante di storia, una giornalista), Explanation For Everything già formalmente pone la narrazione come ingannevole, suggerendo qua e là come lo stesso momento sia andato in modo leggermente diverso per ognuno. Questo spunto così specifico viene presto - purtroppo - abbandonato, tuttavia questa suddivisione, per il modo in cui è costruita progressivamente verso la climax, prende totalmente non facendoci parteggiare per nessuno (e questo non risulta problematico ai fini narrativi, anzi) ma tormentandoci su quale possa essere l’esito della vicenda.
Costruendo e demolendo allo stesso tempo - e con grande ritmo - le nostre idee sui personaggi, Explanation For Everything è una riflessione che dall’umano trae tantissimo sul politico, e questa è la sua qualità più evidente e appassionante. Portare una coccarda tricolore, nell’Ungheria di oggi, è un gesto ambiguo che da una parte rimanda a posizioni nazionaliste ma dall’altra è anche lo stemma di un orgoglio più blandamente patriottico, poiché ricorre durante le celebrazioni del 15 marzo nell’anniversario d’indipendenza ungherese. Questa ambiguità non era facile da veicolare senza ricorre a spiegoni, invece ci è subito chiara ed è giocata benissimo da Gábor Reisz, il quale la fa “esplodere” soprattutto in un dialogo tra il padre e il professore che racconta moltissimo della rabbia e della distanza tra individui diversi che non sanno ascoltarsi. Meno riuscito e convincente è il finale, così come la parabola della giornalista. Ma quello che Reisz voleva dire, arriva pienamente.
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