Evolution, la recensione | Cannes 74

Tre storie di ebrei che rendono Evolution un film a tesi di eccezionale fattura, con stili diversi e modi diversi di raccontare il condizionamento psicologico

Critico e giornalista cinematografico


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Evolution, la recensione | Cannes 74

Nonostante fino ad ora Kornel Mundruczo abbia dimostrato di non saper pensare in piccolo, di voler fare film grandissimi anche quando ha pochi mezzi, di raccontare storie di fantascienza in Ungheria o di cani che si ribellano e poi andare a lavorare con le star, stavolta ha realizzato un film stranamente piccolo e dimesso ma non per questo meno potente. Assieme alla moglie Kata Weber (che sceneggia) ha messo insieme tre storie separate temporalmente ma collegate sottilmente, tre storie di ebraismo contemporaneo, di questioni irrisolte, problemi e contrasti che riguardano gli ebrei.

La prima è la più astratta: una sequenza muta, senza parole, in quello che sembra un campo di prigionia, dove alcuni uomini puliscono un locale docce trovando tracce di capelli sempre più grandi e paradossali, capelli che escono dalle pareti, capelli che quando tirati via staccano parti dei muri. Eccezionale per inquietudine e rimando di sponda agli orrori e la presenza umana in quei posti anche dopo la morte.

La seconda è una storia parlatissima, ambientata nel quasi presente, con una donna che è stata nei campi di concentramento e oggi è anziana, piena di problemi e convive come ha fatto per tutta la vita con le paure dei tedeschi. I traumi che non la abbandonano si riversano sulla figlia che deve gestirla con fatica e fastidio. Anche qui il finale sarà terribile.
La terza invece ha un piglio più ottimista, è una storia di ragazzi a scuola (il nipote della donna della seconda storia), un ebreo e un’araba che stanno sviluppando un legame romantco ma che incontrano resistenze dalle famiglie.

Tutte le storie sono filmate in lunghi piani sequenza e con grande attenzione alla recitazione. Non solo c’è una grande scrittura di dialoghi ma anche un’attenzione quasi teatrale alla messa in scena e i movimenti negli ambienti stretti (e poi nella terza storia anche negli esterni), in modo che essi stessi raccontino questi personaggi, le traversie e vite segnate da una forma di persecuzione infinita.

Come detto è un film piccolo e molto diretto, in cui l’idea è tutta di raccontare le molte maniere in cui tragedie grandi (che rimangono sempre fuori campo) influenzano a lungo vite particolari. Come se vedessimo una stessa famiglia vivere sotto il peso di essere ebrei, con una pressione psicologica che fa un bel contrasto con l’assenza (nel film) di fatti veri e propri. Come se la vera vessazione fosse nel condizionamento più che negli eventi.

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