Euphoria (seconda stagione), la recensione

La stagione 2 di Euphoria racchiude in una forma perfetta una sostanza non sempre all'altezza. La nostra recensione

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Spoiler Alert
Tacito amico di molte lontananze, senti
come il tuo respiro ancor lo spazio accresce.
Nell'intreccio d’oscuri ceppi di campana,
abbandonati e risuona. Ciò che ti consuma,
diventa forza per questo nutrimento.
Entra ed esci dalla metamorfosi.
Qual è in te l’esperienza più dolente?
Se ti è amaro il bere, diventa vino.
Sii in questa notte smisurata
magica forza all’incrocio dei tuoi sensi,
senso del loro incontro strano.
E se il mondo ti ha dimenticato,
dì alla terra immota: io scorro.
Alla rapida acqua parla: io sono.

Il commovente inno di Rainer Maria Rilke risuona come confortante memento nelle orecchie dello spettatore durante il settimo episodio della seconda stagione di Euphoria. A pronunciarlo è Lexi (Maude Apatow), composta osservatrice dei travagliati destini dei suoi coetanei in questo secondo atto che, rispetto a quanto visto nel primo arco del 2019, mostra tinte più squillanti e violente.

Immobilizzati in un dedalo di scaramucce gossippare e sballo glitterato, i protagonisti della serie di Sam Levinson gridano a pieni polmoni l'anelito a esistere e, perché no, a evolvere: peccato che questa seconda stagione sembri sospingerli inesorabilmente all'indietro.

L’amore non basta

In una cupa palude in cui gli orizzonti di domani sembrano simili alle prigioni di ieri, le relazioni sentimentali passano agilmente dalla frivola leggerezza del flirt alla nera cappa della manipolazione: tutti i giovani protagonisti cercano validazione attraverso i rapporti che intrecciano, ingannando il prossimo al fine di affermare la propria supremazia in un gioco perverso che ghettizza e annichilisce.

Vecchi e nuovi triangoli amorosi, materia per commedie pomeridiane, assumono di volta in volta i connotati distorti di un sordido thriller o di un disperato dramma psicologico. Non c’è lieto fine che tenga: in barba alla banalità del romanticismo, Levinson ci dice che l’amore, da solo, non basta a salvare l’essere umano.

Il futuro di Rue (Zendaya), che lo stesso Levinson ha in parte declinato e trasfigurato nel suo Malcolm e Marie, sembra più volte accorciarsi nel nome di una crociata autodistruttiva, e la fiamma purificatrice del legame con Jules (Hunter Schafer) non è sufficiente da sola a garantire catarsi definitiva alla nostra protagonista.

Persino il sesso, demiurgo onnipresente, rinuncia al manto di liberatore ultimo per vestire quello di gabbia; la pulsione non è più strumento di affrancamento, bensì costrizione adamantina. Così, tra orgasmi simulati e tradimenti più che mai sofferti, il dinamismo dei corpi febbrili si contrappone all’immobilismo interiore degli statuari antieroi di questa parata rutilante.

It seems like we only go backwards

Il nuovo arco di Euphoria non devia mai dal sentiero tracciato tre anni fa; ne aumenta le asperità, ampliando lo scarto tra abissi drammatici e picchi di consapevole, dissacrante comicità. Riso e tragedia si danno il cambio in un’alternanza serrata.

La mescolanza di generi diviene, per l’ideatore Sam Levinson, bandiera della stagione. Ridiamo di fronte alla cattiveria, all’arroganza, alla mancanza di tatto che contraddistinguono questo o quel personaggio; la tensione ci stringe la gola nel vedere Cassie (Sydney Sweeney) nascosta nella vasca da bagno, o nel correre con Rue in un forsennato inseguimento notturno.

Eppure, come già avvenuto nella prima stagione, l’identificazione tra spettatore e personaggio non può mai essere completa: è un universo di figure per lo più meschine e immature quello che Levinson presenta al suo pubblico, un formicaio di egoismo solo saltuariamente illuminato da gesti di generosità.

Talvolta, il nichilismo di Euphoria prende il sopravvento su ogni altro sentimento; basti pensare all'arco di Fezco (Angus Cloud) per averne riprova. Parafrasando Fitzgerald, ci troviamo ad assistere a personaggi che invano remano contro la corrente, "risospinti senza posa nel passato". Impossibilitati a decifrare il caos del mondo, rimangono quindi stretti nella morsa di una marea che impedisce loro di avanzare.

Come ci si può orientare in un universo che sembra non possedere regole al di fuori della propria mera crudeltà? È certo questo il nucleo del dolore di Rue, nonché la fonte di tutte le sue insicurezze e motore di tutti i suoi vizi. Costretta a fronteggiare una perdita insensata - la prematura dipartita del padre - la ragazza reagisce con rabbia a chi vorrebbe convincerla che, in quella morte, vi sia un qualche senso più alto.

Schiava di se stessa

L'amplificazione emozionale di Euphoria è fuori discussione: nella scia di quanto già mostrato, i suoi protagonisti vivono ogni evento come ne dipendesse il destino del mondo. È questa, in effetti, una lettura efficace di cosa significhi l'adolescenza; sebbene la scuola venga mostrata pochissimo in queste puntate, l'enfatizzazione dei più piccoli drammi ci ricorda costantemente che stiamo osservando dei diciassettenni.

Eppure, duole constatare come, a dispetto dell'impressionante bellezza di facciata, questi nuovi episodi manchino comunque il bersaglio. Rispetto al suo brillante esordio di tre anni fa, la serie sembra essersi adagiata sugli allori di un'estetica sensuale e conturbante, che non riesce però a sostenere il peso di una sceneggiatura priva di reali guizzi.

"L'arte dovrebbe essere pericolosa," asserisce la pacata aiuto-regia di Lexi alla sua superiore in lacrime. È questa forse l'ambizione di Euphoria, ma questa seconda stagione finisce per tradire qualsiasi intento rivoluzionario, fiaccandone - a dispetto di una confezione provocatoria - ogni potenziale di pericolosità.

Popolata di personaggi che agiscono secondo schemi e modalità perfettamente prevedibili, Euphoria è ormai divenuta un bell'esercizio di stile senza reale linfa vitale. Non c'è più guizzo, non c'è più slancio narrativo, non c'è più voglia di costruire una parabola strutturalmente valida e coerente con quanto raccontato nel primo arco.

Narciso

Perché separare Jules e Rue nel finale della prima stagione per ricomporne la coppia all'inizio della seconda? Perché introdurre un nuovo love interest nella parabola di un personaggio come Cassie, già fortemente caratterizzato in funzione dei suoi legami amorosi?

La risposta, duole dirlo, risiede nella mancanza di freschezza. La quasi totalità della forza di queste nuove puntate risiede nella sua messinscena accattivante, nel declinare situazioni di una spiazzante banalità secondo la grammatica dei diversi generi cinematografici. Una camminata a ralenti prima di una sfuriata ha il sapore epico della preparazione di un duello all'ultimo sangue, e la ferocia di una crisi d'astinenza innesca un inseguimento degno di un film d'azione.

Tuttavia, l'errore fatale di Euphoria sta nell'essersi innamorata di se stessa, accontentandosi di proporre al pubblico una versione più superficiale di quanto già raccontato nel 2019. Il narcisismo è un peccato fatale per qualsiasi artista, e non possiamo che sperare che la terza (e ultima) stagione della serie riesca a imparare dalla seconda più di quanto quest'ultima ha imparato dalla prima.

A fronte di una forma perfetta che ne modella una sostanza non sempre all'altezza e della versatilità (non sempre sfruttata) dei suoi interpreti, l'essenza di questa stagione è tutta in uno scambio che Lexi ha con la sua assistente in merito alla sua turbolenta commedia teatrale. "È l'unica cosa che abbia fatto in vita mia, ed è stata un disastro." "Poteva andare peggio." "Come?" "Poteva essere noiosa."

Trovate tutte le notizie e le recensioni di Euphoria nella nostra scheda.

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