Inspira, espira. Si tratta dell’atto più banale, eppure il più importante e significativo della vita. Ed è concentrando tutte le sue energie e la sua forza drammatica intorno al respiro (o alla sua mancanza) che
Estraneo a bordo di
Joe Penna dipinge un ritratto umano magnetico e delicato. Racchiuso da un’apparato sci-fi e da thriller ad alta tensione,
Estraneo a bordo usa ottimamente il genere per volgersi però alla sostanza prettamente umana della sua storia, portando all’attenzione di chi guarda, più di ogni altra cosa, il significato vitalistico di questo gesto.
La premessa è molto semplice: un medico (Anna Kendrick), un biologo (Daniel Dae Kim) e un capitano di bordo (Toni Collette) partono per una missione di ricerca su Marte, durante la quale potranno portare avanti i loro studi. La scoperta di un estraneo a bordo (Shamier Anderson), tuttavia, li metterà di fronte a scelte di mera sopravvivenza e di sacrificio, non avendo sulla navicella abbastanza ossigeno per respirare tutti e quattro.
Joe Penna sceglie di stare sempre su questi quattro personaggi, rigorosamente dentro lo spazio della navicella. Delle comunicazioni con il pianeta Terra non sentiamo niente, solo un lontano farfuglio che proviene dai loro auricolari. Per il resto, fuori c’è solo un grande vuoto. È così facendo che il senso di isolamento cresce, che l’ansia monta minuto dopo minuto. Immettendo uno alla volta gli elementi di disturbo (la scoperta dell’estraneo, la rottura dei dispositivi, uno sguardo di sospetto) e distribuendo in modo asimmetrico tra i personaggi ciò che uno sa degli altri, il coinvolgimento dello spettatore va letteralmente alle stelle: la sensazione è quella di essere nella navicella lì con loro, e, come per loro, man mano che il tempo passa anche in chi guarda cresce un’indicibile voglia di respirare.
Questa minuziosa attenzione di Joe Penna (anche in scrittura, con Ryan Morrison) è esattamente ciò che rende Estraneo a bordo così attraente. Un’attenzione che non si nega nemmeno al sonoro (un po’ meno, forse, alle musiche, estremamente simili a quelle di Interstellar) e al set-design, studiato nei minimi dettagli tecnologici: ogni leva, ogni bottone, ogni portellone ha un’incredibile presenza. Niente è casuale, e ogni singolo elemento scenografico ci cala in un ambiente iper-realistico. Lo stesso vale per le singole performance attoriali, che non si volgono mai all’esagerazione e anzi lavorano sempre per sottrazione. Toni Collette e Anna Kendrick in particolare brillano in questo senso, e anche se alla Collette è concesso un po’ meno screentime rispetto alla Kendrick, riesce comunque a rubarle la scena per la sua notevole intensità, per la sua capacità di controllare ogni centimetro del viso.
Il tirante della storia più palese - recuperare bombole di ossigeno - nella sua semplicità è perfettamente misurato alla costruzione narrativa di Penna, che nel “regalare” il respiro vede la grande metafora del sacrificio. Il sacrificio però è anche quello del progresso, della ricerca, che si annulla in nome del senso di umanità, dell’altruismo. Il fattore umano che vince su quello tecnologico. Questo aspetto, messo in campo tramite il personaggio del biologo, tuttavia viene solo in minima parte tematizzato per poi essere abbandonato in nome dell’attenzione verso il personaggio principale. Un vero peccato, perché forse proprio questo punto avrebbe potuto dare uno spessore maggiore al film, metterlo su un piano di scontro valoriale di tutt’altro respiro.
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