Esterno notte, la recensione di tutti gli episodi | Cannes 75
Uno degli eventi cruciali della storia italiana diventa in Esterno notte, una serie commerciale con degli acuti da vero cinema d'autore
È strano a dirsi ma anche impossibile non notarlo: Esterno notte, la serie tv di Marco Bellocchio che allarga il suo film del 2003 Buongiorno, notte, è figlia del cinema e della serialità di Paolo Sorrentino. Almeno nei suoi elementi più diretti e superficiali (che non vuol dire trascurabili, anzi). Divisa tra stato e Vaticano (i due poli che si oppongono al terzo, i brigatisti) la serie oscilla tra toni da Il divo, che ritraggono la politica italiana dell’epoca con tratti espressivi, scarso realismo e una certa enfasi cinematografica, e altri da Young Pope (anche se non così estremi) cioè il Vaticano come uno stato, un’organizzazione un po’ paradossale ma il cui business principale è il puro gioco politico, guardato con un distacco laico appassionato dei suoi meccanismi peculiari. E in questo aiuta il fatto che a co-sceneggiare ci sia Stefano Bises, che era stato co-sceneggiatore per The New Pope.
È infatti la presenza del Vaticano che inizia a sporcare le acque e dare a tutto una grande personalità. Si fanno più intense le fiammate spettacolari e autoriali che illuminano un racconto per il resto corretto ma ordinario e si fa strada una lettura degli eventi. Aldo Moro è un agnello sacrificato, è una figura quasi cristologica (un’immagine già vista nel trailer lo rende chiarissimo, Moro con la croce che cade mentre dietro di lui c’è una processione di membri della DC come farisei), vive una passione che non avrà redenzione e non salverà nessuno da niente, mentre il Papa cerca di salvarlo animato da un’amicizia personale in modi scomposti di sorprendente futilità.
Non è una sorpresa che Bellocchio si accenda quando c’è da raccontare la maniera in cui la religione e soprattutto la Chiesa come istituzione influisce nelle vite delle persone, le indirizza, le condiziona e le piega. E anche per questo forse uno dei momenti più belli è quando papa Paolo VI, interpretato da Toni Servillo, decide di scrivere ai brigatisti una lettera che realmente è stata poi scritta e inviata. La conosciamo e sappiamo che ha il tono tipico delle comunicazioni del Vaticano, la lingua del Papa. Quello che la serie inventa però è una notte di dubbi disperati del papa che desidera ardentemente fare qualcosa, che sa che il suo potere è di influenza e vuole riuscire a parlare ai brigatisti e convincerli ma si rende conto di non padroneggiare la lingua giusta, che parlando al suo solito quello che ha da dire non colpirà i brigatisti che sono persone lontanissime da lui.
Come si fa a convincere chi non crede? Dietro questa domanda c’è qualcosa di molto poco raccontato dal cinema o dalla tv mainstream italiane (perché per la prima volta Bellocchio è mainstream), il fatto che quel mondo di riferimenti, quel modo di esprimersi della chiesa cattolica non parla a nessuno se non a chi già condivide quelle idee e quindi quel linguaggio. Pregare di liberare Moro “in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità” o sostenere che “tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa” non dice niente a qualcuno di così lontano. E in questo modo il papa, per la prima volta così deciso ad ottenere un obiettivo concreto e ottenerlo subito, si scontra con un limite sempre ignorato, il fatto di non avere un territorio comune con persone distanti da lui. Una riflessione eccezionale, a partire da una lettera. Alla fine, come sappiamo, la scriverà lo stesso nell’unica maniera che conosce. E non servirà a niente.
È il momento più sofisticato e intellettuale di una serie per molti versi molto commerciale, o meglio, che desidera essere molto commerciale, che mira ad eccitare in certi punti ed infiammare, che usa la tensione e i cliffhanger. Questa parte mainstream sarà la più innovativa su Rai Uno ma suona anche come la più ordinaria e poco sorprendente a chi ha confidenza con le serie (anche quelle italiane di nuova generazione). Molto meglio quando Esterno notte applica idee da cinema d’autore agli snodi più attesi come ad esempio il momento topico della morte di Moro, rappresentato e filmato attraverso un gioco di specchi e altre rappresentazioni che non anticipiamo ma che parlano di quell’evento, dell’eco che ha avuto e delle sue molte rappresentazioni.
La morte di Aldo Moro come evento drammaturgico, un fatto cruciale per la storia recente italiana che già lì, in quel momento mentre avveniva, si fa finzione e rappresentazione. Come se per capire e vedere davvero certe cose non si potesse che fingerle, rifarle e passarle attraverso il filtro di una messa in scena.