Escape Plan 3 - L'Ultima Sfida, la recensione
Non infame come il secondo capitolo, Escape Plan 3 rimette in sesto la messa in scena, si dà un tono e raggiunge la soglia minima di presentabilità
Dopo il disastro senza appello che è stato Escape Plan 2, ora il terzo film della serie, direttamente collegato al secondo e anni luce dal primo, recupera almeno la sua natura d’azione. Di certo la confezione grida direct-to-video (o to-streaming) da ogni poro sebbene qui e in altri paesi Escape Plan 3 - L’Ultima Sfida esca al cinema. Alla regia è stato messo il regista di 15 minuti - Follia omicida a New York, il film che iniziò la deriva della carriera di Robert De Niro.
Il personaggio con una colpa nel passato e bisognoso di una seconda occasione, quello tipico stalloniano, non ce l’ha lui, Stallone qui è un’altra versione del Barney Ross di I Mercenari (il capo, il mentore), semmai è Harry Shum Jr. a cercare redenzione. Meno male. Perché raramente si è visto uno Stallone così poco dedito e così poco impegnato, svegliato giusto per le scene d’azione (e non che vada meglio con Bautista). In particolare l’ultimo confronto fisico dentro una cella abbandonata (molto metaforico!) sembrano le prove della coreografia, scene dotate dell’inespressiva vacuità delle battute recitate durante la lettura del copione, quando non sono realmente interpretate.