Ero in guerra ma non lo sapevo, la recensione

La vera storia dell'omicidio Torregiani è raccontata con una foga verso le idee della vittima che sfocia in qualcos'altro, in un'ossessione capitalista

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Ero in guerra ma non lo sapevo, dal 24 gennaio al cinema

Il merito maggiore di Ero in guerra ma non lo sapevo è (probabilmente) involontario. A lungo durante il film ci si chiede quale sia il punto di questa storia, quale la vera angolazione, quale il racconto delle forze in campo in un film che non nasconde mai di fare cinema d’impegno civile. La storia è vera, quella dell’omicidio Torreggiani ad opera del PAC (Proletari Armati per il Comunismo) guidato da Cesare Battisti, lo viviamo dal punto della vittima, vediamo la vita che faceva, le idee che lo muovevano, la fierezza del suo ideale libertario e della sua etica del lavoro e come queste siano state fiaccate dalle minacce e poi dalla scorta fino all’inevitabile. Sembra di capire però che più di una spinta ideologica diversa (o almeno, leggermente diversa) all’interno della produzione hanno creato un film con più di una direzione.

Non è infatti difficile immaginare che Ero in guerra ma non lo sapevo nasca e sia dalla parte delle vittime (l’opposto sarebbe difficile o quantomeno difficile da fraintendere), anche visto il romanzo da cui è tratto, scritto dal figlio di Torregiani, eppure lungo tutto il film vediamo il racconto di un uomo animato da un desiderio di lavoro e di essere lasciato libero di operare come al solito, nonostante minacce e intimidazioni, che da pensare ad altro.
Il Torregiani interpretato con accento milanese e labbro nascosto da Francesco Montanari si presenta come un demone del capitalismo, una persona disposta a tutto pur di non rinunciare a status e lavoro, disposta a correre rischi per sé e per la sua famiglia pur di fatturare, non rinunciare al suo negozio e continuare indisturbato, La fermezza con la quale pretende che nulla di quel che gli accada gli impedisca di proseguire sul percorso di guadagno e successo su cui è instradato appare via via sempre più una condanna.

Dovrebbero essere le caratteristiche che lo rendono eroico in un film che, nei momenti migliori funziona come un thriller psicologico ma in quelli peggiori (che purtroppo sono preponderanti) è solo ricostruzione d’epoca. Torregiani è proprietario di una squadra di calcio, corrompe l’allenatore per far fare un provino a suo figlio, coinvolge la figlia nelle televendite, piazza gioielli (è un orafo), trascura la moglie e non la sta a sentire, trascura un problema evidente ai polmoni, tutto spiegando e rispiegando come non intenda smettere di andare a letto all’1 e svegliarsi alle 5 per lavorare. Non come i perditempo comunisti (che chiama così perché non hanno l’orologio e quindi non sanno il tempo che stanno sprecando). Il film quando non mette in scena fatti, mette in scena la sua ossessione per il lavoro. Ossessione a parole, nel continuo pontificare e ossessione nelle azioni.

Da un lato c’è la spinta produttiva (Eliseo di Luca Barbareschi che ci tiene molto a mettere in luce questo tipo di storie, di vittime e carnefici), dall’altro c’è quella autoriale di Fabio Resinaro, a cui sta molto a cuore la storia di un uomo che il sistema tiene bloccato, che costringe a comportarsi in una certa maniera privandolo della libertà (il regista stesso ha paragonato quella situazione ad una specie di “lockdown”). Così, enfatizzando più di un punto forse in modi esagerati, esce una terza via, quella di una furiosa ricerca di indipendenza dalle maglie dello stato (liberalismo esasperato), così scomposta e sottolineata da sembrare una follia capitalista. La metafora dell’ingranaggio è una costante ma la lettura che viene più spontanea è quella di Torregiani come ingranaggio di un sistema di creazione del valore (e del denaro) più grande di lui, incapace di concepirsi al suo esterno e letteralmente impazzito per un granello è entrato nel meccanismo.

Tutto per il denaro, tutto per l’etica del lavoro come lotta al suo opposto (come Torregiani dipinge il comunismo), tutto per l’affermazione di sé come uomo indipendente, battitore libero con in mano il proprio destino. Anche la morte.

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