Era mio figlio, la recensione

La nostra recensione di Era mio figlio, dramma sull'elaborazione del lutto con Richard Gere dal 18 luglio al cinema

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La nostra recensione di Era mio figlio, dal 18 luglio al cinema

Daniel (Richard Gere) è un ricco scapolo newyorkese che non ha mai voluto figli. Un giorno, all'improvviso, ritrova dopo vent'anni l'ex fidanzata (Suzanne Clément): la donna gli rivela che ha avuto un figlio dopo la loro separazione, Allen, morto da poco in incidente stradale. L'uomo decide così di scoprire chi fosse veramente il ragazzo, che non ha mai conosciuto, in un viaggio che parte dalla sua scuola, per essere quello che non ha potuto quando quest'ultimo era in vita: un buon padre.

Lo spunto di partenza dell'opera di Savi Gabizon (che rifà negli Stati Uniti il suo film del 2017) era interessante: nel costruirsi un'immagine di Allen, il punto di vista del protagonista e dello spettatore coincidono e vanno di pari passo. Una sorta di investigazione a posteriori basata sui racconti di chi lo ha conosciuto: il preside, la sua giovane fidanzata e soprattutto la sua insegnante di francese (Diane Kruger) di cui Allen era innamorato. Il mistero iniziale che ammanta la sua figura viene in poco tempo risolto: tutti lo ricordano come un ragazzo problematico e incontrollabile, in un'accezione negativa alla quale si oppone Daniel, che cerca invece di capirne le ragioni. Così, anche la potenziale ambiguità si affievolisce: è chiaro che è l'uomo a dare il giusto peso alle cose e bisogna parteggiare per lui. Da quel momento, Era mio figlio progressivamente si spegne.

Mano a mano che si procede, la storia infatti sposta l'attenzione sull'uomo e sulla parabola: il suo è un viaggio in cui conoscere meglio se stesso e mettere alla prova le convinzioni di una vita intera. Il regista/sceneggiatore, con merito, non insiste sugli elementi più ricattatori, come il fatto che Daniel sia un ricco uomo d'affari che prima pensa solo ai soldi e poi (re)impara ad aprirsi all'altro: basta una breve scena introduttiva per caratterizzare il personaggio. Allo stesso tempo, una volta collocatosi su questi binari, il film scivola via senza alcun sussulto, come un già visto racconto sull'elaborazione del lutto che accantona il suo tratto peculiare (il fatto che, appunto, il defunto è uno sconosciuto per il padre). Non mancano facili escamotage, come una musica drammatica per accompagnare i passaggi chiave e una fotografia translucida per dare una patina malinconica all'inquadratura.

Il punto poi di Era mio figlio è che, se le dinamiche presentate sono sulla carta del tutto verosimili, sullo schermo appaiono quanto più artificiose. Piccole rivelazioni, forzature narrative (i tratti in comune che Daniel scopre di avere con Allen) vengono incastrate una dietro l'altra in modo meccanico, tale da dare la sensazione di operazione fatta a tavolino per commuovere. Che, proprio perché percepita come non naturale, fallisce il suo obiettivo.

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