Era mio figlio, la recensione
La nostra recensione di Era mio figlio, dramma sull'elaborazione del lutto con Richard Gere dal 18 luglio al cinema
La nostra recensione di Era mio figlio, dal 18 luglio al cinema
Lo spunto di partenza dell'opera di Savi Gabizon (che rifà negli Stati Uniti il suo film del 2017) era interessante: nel costruirsi un'immagine di Allen, il punto di vista del protagonista e dello spettatore coincidono e vanno di pari passo. Una sorta di investigazione a posteriori basata sui racconti di chi lo ha conosciuto: il preside, la sua giovane fidanzata e soprattutto la sua insegnante di francese (Diane Kruger) di cui Allen era innamorato. Il mistero iniziale che ammanta la sua figura viene in poco tempo risolto: tutti lo ricordano come un ragazzo problematico e incontrollabile, in un'accezione negativa alla quale si oppone Daniel, che cerca invece di capirne le ragioni. Così, anche la potenziale ambiguità si affievolisce: è chiaro che è l'uomo a dare il giusto peso alle cose e bisogna parteggiare per lui. Da quel momento, Era mio figlio progressivamente si spegne.
Il punto poi di Era mio figlio è che, se le dinamiche presentate sono sulla carta del tutto verosimili, sullo schermo appaiono quanto più artificiose. Piccole rivelazioni, forzature narrative (i tratti in comune che Daniel scopre di avere con Allen) vengono incastrate una dietro l'altra in modo meccanico, tale da dare la sensazione di operazione fatta a tavolino per commuovere. Che, proprio perché percepita come non naturale, fallisce il suo obiettivo.