EO, la recensione | Cannes 75

La storia di un asino dal punto di vista di un asino è fatta per spiazzare e proprio questo è ciò che le apre praterie di sperimentazione e divertimento

Critico e giornalista cinematografico


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EO
La recensione di EO, il film in concorso a Cannes

L’originalità non è un trucco. EO è un film particolare che sa di essere particolare e sì: basa molto del suo fascino su questo essere particolare. Una storia di finzione che ha per protagonista un asino, vista quanto più possibile dal punto di vista dell’asino stesso, raccontando le sue emozioni, partecipando alle sue peripezie a metà tra umorismo, paura, piccoli e grandissimi drammi. Ma la particolarità non è un trucco, o almeno non solo, è quello che ci smuove dalle solite posizioni e che soprattutto costringe il cineasta stesso a smuoversi dalle solite pratiche per trovare percorsi nuovi anche solo per arrivare alle solite destinazioni.

In EO la particolarità dello spunto è subito particolarità della forma. Attira lo spettatore promettendo qualcosa di originale ma attira alla stessa maniera il cineasta promettendo ostacoli tutti diversi dal solito e costringendo a riflettere sul senso di certi strumenti e quindi a rivederne l’uso. Di fatto a rinunciare alla recitazione senza rinunciare all'essenza del cinema.

È così questo film di Jerzy Skolimowski, che alla fine della fiera è una grande storia animalista con un animale trattato come un uomo e uomini trattati inquadrati come animali, in cui c’è un misto di favolismo, umorismo e visioni (che idea il sogno dell’asino che sì immagina meccanico come un robot BostonDynamics!), ma che con il trucco del punto di vista inusuale cambia tutto. La necessità di creare un mondo di soluzioni di puro cinema intorno all’asino protagonista che ci suggeriscano i suoi pensieri forza la solita messa in scena, scarta il dialogo come arma di esposizione e promuove tutto il resto: movimenti di macchina, stacchi di montaggio, composizione dell’immagine e ovviamente uso della colonna. Tutto è messo a frutto con obiettivi cognitivi, per conoscere. EO gioca con le convenzioni del cinema per attribuire ragionamenti e sentimenti ad un essere inespressivo che sicuramente non li sta provando né tantomeno recitando. Il massimo della sospensione dell’incredulità che in un colpo distrugge la retorica della buona recitazione raggiungendo il suo obiettivo senza proprio nessun bisogno di recitazione, solo con un uso a regola d’arte della messa in scena.

Nonostante EO possa ricordare Essential Killing (altra odissea muta di Skolimowski) ne è l’esatto opposto, perché in quel film la recitazione di Vincent Gallo era la pietra fondante di uno storytelling fatto di immagini. Qui invece è solo la troupe, nel suo complesso, che si coordina per elevare l’asino (che si fa i fatti suoi) ad attore, trasformando continuamente il mondo intorno a lui in modo che la sua fissità possa suggerire qualcosa di diverso ogni volta. E per quanto EO non abbia (strano a dirsi, vista la sfida) ambizioni eccessivamente alte, di certo questo studio sulla nostra percezione dei pensieri di altri esseri viventi, sull’inevitabile tendenza ad antropomorfizzare qualsiasi soggetto narrato, è un viaggio appassionante tra generi diversi, che sfocia nella commedia, si bagna i piedi nel favolistico con una notte nella foresta, trova immagini bellissime (che esplosione quella fessura in cui l'asino intravede cavalli bradi che solcano una prateria mentre lui è rinchiuso!) e sperimenta lenti e montaggio per mettere in scena una sceneggiatura. Gli umani ci saranno e avranno anche delle battute ma a quel punto il miracolo del film è che le parole non servono a niente, sono anch’esse versi, rumori che intendiamo ma che non ci portano ad una consapevolezza maggiore su quel che avviene.

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