Enea, la recensione | Festival di Venezia

Troppo ambizioso e poco concreto, Enea è comunque uno dei film più interessanti dell'anno e mostra un'idea di cinema da promuovere

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Enea, il film di Pietro Castellitto, presentato in concorso al Festival di Venezia

Alla fine Enea forse è solo una storia di baci mancati. La maggior parte delle volte che dei personaggi si baciano il film mette un breve schermo nero che ci impedisce di vederlo oppure lo fa avvenire dietro le spalle di qualcuno. È una maniera non solo di non mostrare ma anche di rendere evidente che non sta mostrando. Il protagonista, che dà il nome al film e quindi è il suo centro, non riusciamo mai a vederlo baciare, eppure ha una fidanzata con cui vuole sposarsi e per lei ha anche smesso di tirare la cocaina che spaccia in quantità giganti come seconda attività (la prima è gestire il suo ristorante di sushi). Quando lo incontriamo Enea (Pietro Castellitto stesso in un film in cui il padre è interpretato da Sergio Castellitto e il personaggio della madre è nel mondo dei libri) è a un passo dal cambiare vita e ha la sensazione di essere in cima al mondo.

Noi da subito ne sappiamo di più, ce lo dice la forma di Enea (il film, non il personaggio), che per il film è tutto. Quello che la storia racconta è sostanzialmente una famiglia, i guai di ognuno e l’insoddisfazione di ognuno (materia standard per il cinema italiano), ma lo fa con uno stile che lo rende unico invece che usuale. È un film allucinato in cui un vero centro non c’è mai, in cui esiste una parte criminale, una parte romantica, una parte borghese e su tutto regna l’umorismo inclassificabile di Pietro Castellitto, quello già mostrato con I predatori. Una festa in un locale gestito da Matteo Branciamore sovreccitato dalla cocaina è ripresa come un film di Refn, spesso entriamo nelle scene mentre le conversazioni sono a metà e l’immaginario del film coincide con quello kitsch dei personaggi: due amici, eccentrici gangster da salotto e benestanti da sempre, alla ricerca silenziosa di un senso nella vita.

Non si può davvero dire che tutto riesca in questo secondo film di Castellitto, perché davvero troppe sono le aspirazioni, troppa la dimensione del film, troppo alto volano gli obiettivi rispetto a quello che poi avviene, finendo per lasciare l’impressione di aver visto un film di situazioni più che una storia compiuta con un senso forte. Infatti mentre la trama continua ad alludere a idee, ragionamenti e possibilità sempre più concettuali, il film si è fermato da tempo allo stesso punto, senza tenere il passo delle intenzioni. Questo sarebbe una tragedia per qualsiasi altro film e darebbe vita a una seconda parte dalla noia intollerabile. Invece in Enea è solo un problema. Non fatale. Perché troppo buono è tutto il resto.

C’è qui una delle maniere migliori di parlare dell’oggi, immaginando un mondo intero di banali in cui ognuno si percepisce eccezionale. Come tutto nel film lo capiamo dai dettagli, dalla cura dell’abbigliamento o dalla vita che fanno, dalle feste cui vanno o da come reagiscano ai torti percepiti (già un classico dei film di Castellitto) o ancora come siano vaghi e poco efficienti, continuamente sballottati dalla corrente mentre comicamente pensano di essere in controllo. L’esatto opposto di come procedono di solito le commedie italiane, affezionatissime al far dire ai personaggi i loro problemi o i loro sogni. 

Alla fine quanto non tengano le redini della propria vita lo dimostrerà la parte criminale della trama (non amalgamata benissimo al resto), in cui trovate come il fenomenale domestico filippino assassino invece che servire il film si sostituiscono a esso e finiscono a soffocarne la chiarezza.

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