End Of Justice - Nessuno è innocente, la recensione
Poco sensato come film ma molto funzionale all'essere un veicolo per Denzel Washington, End of Justice è uno studio sull'attore
Insomma non è un ruolo da matto ma ci va vicino, e Denzel Washington è quello che lo sa meglio di tutti. Questo film è un veicolo per lui come del resto Nightcrawler (l’opera precedente scritta e diretta da Dan Gilroy) lo era per Jake Gyllenhaal, anche lì la ricerca di un lavoro era un problema per una mente influenzabile e instabile, anche lì il desiderio di arrivare e il fascino del denaro, del successo e dell’accettazione sociale che ne deriva generavano mostri, anche lì un taglio di capelli particolare era l’elemento rivelatore. Quando deciderà di cambiare e provare ad adattarsi al mondo infatti Roman J. Israel come prima cosa cambierà taglio.
A catturare l’interesse semmai è Denzel Washington nel ruolo che (in originale) dà il nome al film. Lui si trasforma in un dispositivo emotivo ambulante, con i movimenti o l’assenza di movimenti e la postura modifica l’ambiente intorno a sé, collezionando tutto quel che di sentimentale ci può essere nella scena, attraendolo e convogliandolo nel suo personaggio. In ogni momento. Come una calamita ogni cosa accada lo colpisce e lo condiziona anche di poco e dai suoi movimenti intuiamo bene quanto e come. Quando poi gli viene dato spazio per piccoli assoli (come il colloquio con l’associazione per diritti civili, tutto fatto seduto su una sedia) rilascia quel che ha accumulato con grandissima economia di gesti che non ne limita la potenza.