Encanto, la recensione

Molto in linea con la gestione di Jennifer Lee anche questo film dice che il cambiamento implica distruzione. Ma lo fa con confusione

Critico e giornalista cinematografico


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Encanto, la recensione

C’è una concentrazione anche più forte del solito sul messaggio in Encanto. Una concentrazione così forte che schiaccia il resto e sul cui altare un po’ tutto è sacrificato. Da uno studio che ha sempre fatto di un’eccezionale semplicità narrativa una bandiera, arriva un film farraginoso nei suoi snodi, che avrebbe anche una trama semplice (una grande casa in cui vive una famiglia con dei doni speciali, una figlia diversa che questi doni invece non li ha, una profezia e un passato da scoprire per evitare una minaccia nel futuro) ma preferisce essere certo dei suoi obiettivi invece che lavorare sui personaggi, nessuno mai messo in crisi, tutti fermi alla consueta caratterizzazione molto forte.

Questa grande famiglia in cui ognuno ha un dono soprannaturale (giusto per non chiamarli poteri) ha bisogno di mostrare alla gente normale e comune che vive nel loro borgo una fermezza e una sicurezza incrollabili nella presenza di questi doni. Non stanno scomparendo, noi saremo sempre quel che siamo. Tranquilli. Una loro eventuale debolezza potrebbe gettare la gente nel panico, come fossero dei leader. È il primo elemento di confusione: perché la popolazione ci tiene così tanto? Narrativamente serve ad aumentare il rischio, la tradizione non deve finire come invece sembra che accadrà, ma di fatto non è chiaro e anzi molto ambiguo. E poi cosa c’è nel passato di torbido e perché la nonna dice cose misteriose e sibilline guardando fuori dalla finestra quando in casa una delle nipoti ha il potere di sentire tutto (ma questo pare che non lo abbia sentito)? Serve perché la protagonista appostata poco fuori lo senta e capisca che la sua famiglia nasconde qualcosa ma, di nuovo, non funziona benissimo.

Encanto (diretto da ben 3 registi!) procede così, con ben poca grazia, a grandi passi verso l’affermazione della sua protagonista, diversa, in teoria meno potente e rilevante, ma capace di scoprire (di confessione di un parente in confessione di un parente) che anche gli altri non sono a loro agio ma lo mascherano.

Come in Raya c’è qualcosa che non va nella famiglia, come in Zootropolis c’è un mistero su cui occorre indagare, come in Frozen e Coco (della Pixar) la famiglia è un nucleo che “cancella” alcuni membri, condiziona e mente, cambia il passato per indirizzare il futuro. E come in alcuni di questi, l'etnia dei protagonisti è un elemento caratterizzante. Nel rinascimento Disney le principesse si ribellavano e scappavano fuori dalle gabbie dorate per scoprire la vita, salvo poi alla fine in un modo o nell’altro tornare a palazzo o a quel ruolo, cambiavano tutto perché nulla cambiasse. Erano film che dicevano di non aver paura di avventurarsi fuori dai confini per poi tornarci. In questi film invece quel che viene detto è di non aver paura di distruggere tutto, che il cambiamento è necessario, le famiglie non hanno ragione e non si ci può essere rivoluzione senza distruzione.

Il messaggione gigante (non stupirà nessuno) è quello di liberarsi delle aspettative sociali, è il mantra di Jennifer Lee già visto e sentito in Zootropolis, Raya e soprattutto in Frozen: anche qui infatti un vero villain non c’è, la minaccia è la protagonista stessa che lotta per scoprire che non è così. Anzi. Che la sua diversità è un valore.

Encanto, con questa sua strana bolla colombiana, un piccolo mondo protetto in cui tutti vivono al riparo da ciò da cui sono scappati, in un’idealizzazione di facciata che nasconde crepe ovunque riparate a fatica (di nuovo, pare la descrizione di un regime), è pieno di spinte diverse messe a tacere con i consueti numeri musicali, strizzate d’occhio e personaggi macchietta (meno divertenti del solito). È lo stile classico Disney e va benissimo, ma stavolta non c’è quella pulizia e chiarezza d’intenti che caratterizza i film migliori, anzi una certa scalcagnata goffaggine nell’urlare l’unico punto a cui si tiene per trascurare il resto.

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