Encanto, la recensione
Molto in linea con la gestione di Jennifer Lee anche questo film dice che il cambiamento implica distruzione. Ma lo fa con confusione
C’è una concentrazione anche più forte del solito sul messaggio in Encanto. Una concentrazione così forte che schiaccia il resto e sul cui altare un po’ tutto è sacrificato. Da uno studio che ha sempre fatto di un’eccezionale semplicità narrativa una bandiera, arriva un film farraginoso nei suoi snodi, che avrebbe anche una trama semplice (una grande casa in cui vive una famiglia con dei doni speciali, una figlia diversa che questi doni invece non li ha, una profezia e un passato da scoprire per evitare una minaccia nel futuro) ma preferisce essere certo dei suoi obiettivi invece che lavorare sui personaggi, nessuno mai messo in crisi, tutti fermi alla consueta caratterizzazione molto forte.
Encanto (diretto da ben 3 registi!) procede così, con ben poca grazia, a grandi passi verso l’affermazione della sua protagonista, diversa, in teoria meno potente e rilevante, ma capace di scoprire (di confessione di un parente in confessione di un parente) che anche gli altri non sono a loro agio ma lo mascherano.
Il messaggione gigante (non stupirà nessuno) è quello di liberarsi delle aspettative sociali, è il mantra di Jennifer Lee già visto e sentito in Zootropolis, Raya e soprattutto in Frozen: anche qui infatti un vero villain non c’è, la minaccia è la protagonista stessa che lotta per scoprire che non è così. Anzi. Che la sua diversità è un valore.
Encanto, con questa sua strana bolla colombiana, un piccolo mondo protetto in cui tutti vivono al riparo da ciò da cui sono scappati, in un’idealizzazione di facciata che nasconde crepe ovunque riparate a fatica (di nuovo, pare la descrizione di un regime), è pieno di spinte diverse messe a tacere con i consueti numeri musicali, strizzate d’occhio e personaggi macchietta (meno divertenti del solito). È lo stile classico Disney e va benissimo, ma stavolta non c’è quella pulizia e chiarezza d’intenti che caratterizza i film migliori, anzi una certa scalcagnata goffaggine nell’urlare l’unico punto a cui si tiene per trascurare il resto.