Empire of Light, la recensione
Ode al potere del cinema e ai suoi lavoratori, Empire of Light è anche però un film dall'intreccio troppo semplice e ruffiano
La nostra recensione di Empire of Light, presentato al Torino Film Festival 2022 e al cinema dal 23 febbraio
L'Empire del titolo è un vecchio cinema di una cittadina balneare inglese. Negli anni '80 è gestito da Hilary (Olivia Colman), donna che deve fare i conti con i problemi di salute mentale, insieme a una affiatata squadra. L'arrivo di un nuovo membro Stephen (Micheal Ward), fa nascere un'inaspettata relazione tra i due, con cui questi troveranno scudo e conforto dalle rispettive difficili condizioni. Come ha dichiarato lo stesso regista, la figura della protagonista è dedicata alla madre, affetta da disturbi di depressione e bipolarismo, ma Empire of Light non è interessato tanto alla dimensione autobiografica che accomuna i titoli citati in apertura, quanto a essere un'ode al cinema (inteso come sala) e a chi ci lavora. Non sfuggendo però ad alcuni degli stessi automatismi che affliggono alcuni dei titoli citati.
Questo quadro, e in particolare la love story tra Hilary e Stephen, molto "scritta" ed enfatizzata, diventa così limpida espressione dell'obiettivo di fondo di Empire of Light: raccontare la potenza del Cinema, la sua capacità illusoria, come ovviamente non mancheranno di esplicitare gli stessi personaggi, in quegli artificiosissimi dialoghi in cui è chiaro che in verità parlano allo spettatore. Un film dunque ideale sequel larger di 1917: se in quest'ultimo la celebrazione tecnica era riferita alla macchina da presa e al montaggio, capaci di creare il miraggio della continuità temporale, qui diventa ancora più a tutto tondo, comprendendo anche la musica e la fotografia. La colonna sonora firmata Trent Reznor e Atticus Ross, altrove molto più suggestiva, si manifesta in un prolungato e onnipresente tappeto sonoro che evoca un tono commovente pervasivo e un'atmosfera favolistica. Roger Deakins illumina con forti sfumature giallastre gli interni del cinema quando è aperto, rendendolo luogo incantato e magico e facendolo contrastare con il grigiore degli esterni o il buio di quando è chiuso.
La dimensione volutamente irrealistica stride quando ai margini irrompe (letteralmente) la Storia e il discorso cerca di farsi concreto, rimanendo però solamente accennato. Inoltre questa contraddizione di fondo si riversa anche in un'altra, quella tra il passato e il presente. Tutti i dettagli rimandano agli anni '80, dalle scenografie ai film proiettati che vediamo sul grande schermo della sala. Ma il modo in cui le istanze che emergono ci sono presentate rende evidente che si riferiscono alla contemporaneità. Così il proprietario del cinema, interpretato da Colin Firth, è un bruto che chiede favori sessuali a Hilary nel proprio ufficio (e il fatto che poi sia il promotore di un ammodernamento e rinnovamento della sala, permettendole di sopravvivere, passa in secondo piano). Così la donna rivendicherà i propri diritti e la propria voce davanti a tutti, finendo per smascherare la cattiva condotta dell'uomo in faccia alla moglie. Se poi pensiamo a come una celebrazione della sala arrivi proprio in un momento post-pandemico in cui questa è minata da tanti e diversi fattori, allo stesso modo in cui l'Empire nasconde al suo interno i resti del suo glorioso passato ma resta comunque in piedi, capiamo infine perfettamente la ruffianeria del discorso di Mendes.