Emily in Paris (seconda stagione): la recensione
Emily in Paris ritorna con il suo mondo fashion e pieno di amori e contrattempi, ecco la nostra recensione in anteprima della seconda stagione
Emily in Paris torna su Netflix dal 22 dicembre con gli episodi della seconda stagione che, nonostante le critiche, attinge nuovamente a piene mani agli stereotipi e ai preconcetti per proporre un racconto dallo spessore persino inferiore a quello di una cartolina di Parigi da spedire ai propri amici durante una vacanza in Francia.
La serie prodotta da Darren Star non deluderà però gli spettatori che non hanno battuto ciglio di fronte al ritratto approssimativo e, per alcuni, offensivo della vita in Francia, approccio narrativo che ora coinvolge anche la popolazione britannica e, per alcuni minuti, quella italiana.
Emily in Paris propone ciò che ci si può aspettare: una storia edulcorata e piena di situazioni sopra le righe ambientata in un mondo fantastico in cui la pandemia non esiste, la protagonista possiede un guardaroba magico all'interno di un miniappartamento (all'interno del quale vivono due persone) da cui escono centinaia di outfit all'ultima moda apparentemente senza avere alcun costo, e la vita ruota intorno a una fascia della popolazione che ritiene sia un'ottima idea produrre dello champagne non per berlo, ma per spruzzarselo addosso.
L'ingenuità quasi irreale che contraddistingue Emily la rende una Pollyanna moderna che a tratti fa sembrare l'intreccio di Nei panni di una principessa un documentario.
Gli episodi, che ovviamente gettano le basi per un possibile ritorno per una terza stagione, si limitano a regalare qualche ora all'insegna dall'evasione dai problemi quotidiani, senza approfondire realmente nessun personaggio, nonostante il maggior spazio dato ai colleghi della protagonista, o andare oltre una superficie glamour ma poco incisiva.
Emily in Paris propone comunque una parentesi leggera che ben si adatta all'atmosfera delle feste contraddistinto dalla voglia di relax e, spesso, di visioni non impegnative. Le vicissitudini, sentimentali e professionali, che affrontano i protagonisti strappano qualche sorriso e suscitano la voglia di poter fare un viaggio, grazie ai tanti intermezzi in stile cartolina dedicati alle location affascinanti in cui si svolgono gli eventi.
La bravura del cast e del team coinvolto nella produzione permette così di confezionare un progetto visivamente curato e accattivante, che lascia però la sensazione di trovarsi di fronte a un'opera in cui la bellissima confezione contenga poco o nulla.
Il primo è legato proprio al già tanto discusso abusare di stereotipi e preconcetti. Dopo quelli legati ai francesi i nuovi episodi mettono sul tavolo una lunga lista di idee prive di sfumature e piuttosto riduttive dei britannici. La nuova conoscenza di Emily è infatti un gran lavoratore, pragmatico, poco romantico, che beve birra al pub e non si avvicina alla cultura enogastronomica francese senza poi subirne degli effetti fisici negativi, usa espressioni al limite del fastidioso e non si lascia ingannare dal fascino di Parigi, dichiarando che almeno Londra non finge di essere ciò che non è.
La mancanza di sfumature riguardanti la vita e la cultura francese, ovviamente, non mancano nemmeno questa volta tra party sfrenati a Saint Tropez, infinite sfilate sopra le righe, commenti sulla vita nei weekend e scontri diretti tra approccio americano e francese al lavoro. Nonostante personaggi come Luc riescano a emergere dimostrando di avere una cultura e delle conoscenze meno banali dell'arte, le puntate sono costruite proprio su idee e comportamenti non particolarmente fondati e non manca una scena in cui si parla dell'Italia citando, senza particolari sorprese, la Dolce Vita, Mastroianni e Anita Ekberg.
Il secondo problema, e forse quello che nel 2021 stona maggiormente, è il modo in cui vengono trattati e gestiti i personaggi maschili. In nessun momento le donne al centro della trama si confrontano in modo onesto, sincero e diretto con i loro interessi sentimentali, causando incomprensioni e problemi che sembrano più frutto di stupidità che di buon cuore. Emily non concede mai a Gabriel la possibilità di decidere in modo autonomo se ha un vero interesse a salvare la relazione con Camille, Camille non chiede le motivazioni del tradimento con l'amica, lo chef non viene mai posto di fronte a un confronto adulto e maturo, ma solo a macchinazioni, decisioni altrui unilaterali e idee che non risultano, riflettendoci, divertenti e nemmeno romantiche. Lo stesso accade, in modo diverso, con la storia di Sylvie e Mindy, entrambe che nascondono al proprio partner dei dettagli importanti che possono minare profondamente la fiducia reciproca e l'onestà necessaria a costruire una relazione duratura. Se la storia fosse al contrario, con le azioni compiute dai personaggi maschili affidate a quelli maschili, probabilmente si solleverebbero delle discussioni riguardanti i modelli comportamentali proposti come normali e accettabili nelle serie tv, ma la parità non è di sicuro rappresentata dalle dinamiche proposte da Emily in Paris in cui tutti sembrano ignorare l'importanza del dialogo.
Il terzo problema è la scelta, assolutamente evidente, di rendere la serie distaccata dalla realtà, non solo per quanto riguarda la decisione di non affrontare la pandemia. Carrie e le sue amiche, in Sex and the City, avevano un guardaroba altrettanto sfarzoso (curato anche in quel caso da Patricia Field) e uno stile di vita sicuramente diverso dalla norma delle loro coetanee, ma le tematiche e le situazioni che le vedevano coinvolte riuscivano comunque ad avere più di un punto di contatto con la società reale. Emily rimane invece immersa in un mondo privilegiato che, anche quando accenna ai problemi economici, sembra sempre avere un filtro rosa che rende tutto bello, affascinante e mai drammatico. La sensazione è di una "pulitura" costante e continua della realtà come accade con l'autotune dei momenti musicali con al centro Mindy, senza spazio per qualcosa di fuori posto o stonato all'interno di un ritratto che si sforza costantemente di essere leggero e (poco) autoironico.
Emily in Paris non è una brutta serie, è semplicemente una proposta astuta per trasformare un vuoto narrativo in un prodotto che attiri e stimoli la visione, non poi così diverso da un capo firmato d'alta moda che si scopre poi essere stato confezionato in Cina, rendendo evidente che alle volte l'apparenza è tutto ciò che conta per soddisfare, senza particolari sensi di colpa, i propri acquirenti.