Elvis, la recensione | Cannes 75

Tutti desiderano Elvis, tutti desiderano qualcosa dal genio della sua performance, noi, loro e il manager tutti uniti da una bramosia

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Elvis, il film di Baz Luhrmann fuori concorso a Cannes

C’è una e una sola forza in cui Baz Lurhmann crede: la forza del falso. Lo spettacolo, grande e magnifico, è solo il suo luogotenente, il territorio in cui il falso trova la sua massima espressione e quindi il massimo della sua capacità di arrivare a dire qualcosa di reale. In Elvis, che è uno dei suoi film migliori, riesce di nuovo a superare la realtà dei fatti e del racconto (che pure è presente), fino ad approdare in una zona in cui arte spettacolare e arte concettuale si uniscono e i mezzi di messa in scena grandiosa e kitsch sono uno strumento con cui poter parlare di qualsiasi concetto.

Parla ad esempio tantissimo di desiderio femminile Elvis. Della sua potenza e della sua repressa esplosione, anche nelle relazioni con sua moglie e con le altre donne. Luhrmann si interessa al suo soggetto in quanto corpo mediatico che viene desiderato. Desiderio e capitalismo, desiderio e amore, desiderio e senso di una vita intera rovinata. Il film ne fa una serie di stimoli che provocano in noi un ragionamento, colpiscono sensorialmente (come Presley stesso) e non intellettualmente. Certo poi il film è tutto intorno al colonnello Tom Parker e alla sua bramosia, la storia di un antieroe che spreme il nostro eroe, ma anche quello è desiderio, perché Parker è la persona che trasforma il desiderio in merce, anzi in merchandising.

Tom Hanks (per una volta in un ruolo molto lontano dai suoi soliti, un padre sì, ma terribile) è eccezionale nella maniera in cui assume un tono allucinato e allampanato per tutto il tempo, un narratore della storia che per follia non stona con lo scenario di slot machine da cui ci parla. È un demone che vuole ghermire un’anima, vuole catturare il fulmine e imbottigliarlo, rubargli la scintilla fino a succhiarlo tutto. Niente di vero nella sua recitazione, tutto di falso ed espressionista, capace di dire in questo modo qualcosa di verissimo non tanto sulla persona che si faceva chiamare “il colonnello” ma su quello che ha rappresentato: ovvero la forma più alta ed estrema di sfruttamento del desiderio per fini di mercato.

Luhrmann però non si appoggia a nessun cliché (incredibile!) e rivede anche il solito rapporto tra burattino e burattinaio, perché questo colonnello è anche lui affascinato da Elvis, lo scruta, ne rimane sempre stupito e attratto. Che potere sincretico c’è nella scena (la più bella, la più memorabile, quella che spiega tutto della nostra passione per quel che vediamo) in cui un pubblico che non sa cosa sia Elvis entra in contatto con lui per la prima volta ed è posseduto da urla e un’eccitazione che non riesce a capire? E che cosa incredibile che quella passione si alterni nel montaggio con il desiderio, altrettanto potente ma diverso, commerciale e avido, del colonnello? Il capitalismo è bramosia, è sesso ma in un’altra veste, e nello showbusiness tutto passa per l’atto stesso del guardare.

Alla fine, in un lungo finale in cui Luhrmann ribadisce l’assunto base del suo cinema (lo spettacolo è la manifestazione dell’amore, per raccontare il secondo serve il primo), ancora questo film trova un modo nuovo e diverso di legare le due cose. Elvis ormai sfatto e drogato canta Suspicious Mind dicendo: “Well, don't you know I'm caught in a trap?/I can't walk out/Because I love you too much, baby”, il senso delle parole sarebbe sentimentale ma vedendo quel che accade durante il brano a noi quelle parole parlano di altro, di spettacolo e prigionia tra un artista e un impresario che sfrutta la sua dipendenza dal pubblico e dal suo amore. Ancora altre canzoni e altre parole che cambiano di senso, perché subito dopo, mentre capiamo che a bloccarlo è questo rapporto, di dipendenza dall’amore del pubblico da cui Elvis non riesce a liberarsi si sente, lenta e inesorabile nel suo incedere: “And I... can’t... help... falling in love... with you”.

Da oggi in poi sarà impossibile sentire quelle canzoni senza pensare al dramma personale di Elvis e di qualunque artista gigantesco.

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