Elemental, la recensione

A partire dalla metafora molto semplice di una società di elementi che rispecchia la multiculturalità americana, Elemental complica tutto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Elemental, il nuovo film dei Pixar Animation Studios, presentato in chiusura al festival di Cannes

Sembrava destinato ad essere un altro Inside Out, cioè un altro film in cui la Pixar prende concetti astratti e li organizza in un sistema civile, urbano e professionale, come era già stato Soul con il suo al di là iperburocratizzato, e invece Elemental è più il suo Zootropolis, cioè la sua versione di fantasia della società americana e delle sue differenze, ricreato per parlare di come la convivenza tra culture diverse influisca su sogni, aspirazioni e desideri dei singoli. Inoltre, sorprendente a dirsi per un film Pixar molto riuscito, Elemental è molto più ordinario, convenzionale e formulaico del suo precedessore Disney (sempre Zootropolis). Ma come già abbiamo visto accadere, quando la Pixar gira bene è capace di prendere le convenzioni più semplici e gli svolgimenti più noti e triti e dargli di nuovo il senso che dovrebbero avere sempre.

L’intreccio è basilare: c’è una coppia di opposti che vive un’avventura contro il tempo per salvare qualcosa che ha un valore sentimentale, mentre lo fa stringe un legame osteggiato dal loro mondo. Sono un ragazzo d’acqua (primo elemento ad essere arrivato in quella terra, quindi il più integrato e ricco) e una ragazza di fuoco (ultimo elemento ad essere arrivato, quindi relegato in borgate, mediamente più povero e spesso disprezzato dagli altri); lui sentimentale, empatico, lei molto dura e razionale. Il villain è la burocrazia (da tempo Disney e Pixar si sono sbarazzati dei cattivi e forse anche per questo Zootropolis era più audace e radicale sotto quell'aspetto), cioè un sistema di regole contro le quale battersi che vincola le persone e gli fa dare il loro peggio.

Non è difficile immaginare come l’avventura piena di corse e salvataggi finirà per unire questo personaggio femminile con caratteri tradizionalmente associati agli uomini (dura, d’azione, sempre pronta a scoppiare e bisognosa di essere sciolta) e questo personaggio maschile sensibile, empatico e piagnone, pronto a dimostrare quanta forza ci sia in un animo gentile. Su queste caratteristiche base un team di sceneggiatori che vengono dalla produzione e di Peter Sohn (già regista del deludente Il viaggio di Arlo), riesce ad applicare la precisione e la cura Pixar a qualcosa di un po’ didascalico ma troppo ben realizzato per essere pedante. Troppo ben costruito è l’arrivo all’apice sentimentale per poter obiettare che sia scontato. Troppo significativo e visivamente appagante è l’amore che fa ribollire l’acqua per accusarlo di banalità.

Sono conquiste prima di tutto visive che partono già dal character design del fuoco rubato a Calcifer di Il castello errante di Howl (molto coerente con la storia Pixar che ha nello Studio Ghibli la sua matrice stilistica principale) per giungere alla recitazione dei personaggi animati, i cui movimenti hanno tempi e delicatezza giuste per raccontare i loro sentimenti, e nel complesso rendono difficile rimanere indifferenti di fronte alla maniera in cui lo scoppiare dell’amore (annusato addirittura dalla madre della protagonista) modifichi il quartiere, trasformando ciò che era brutto in qualcosa di bello. Difficile non rimanere stupiti da come la metafora basilare (gli elementi sono le diverse culture che convivono in America) venga a mano a mano complicata fino a rendere concetti complessi come la paura del padre della protagonista di essere annacquato, cioè che la contaminazione con il suo opposto lo spenga, lo diluisca, gli faccia perdere la parte più profonda della sua identità (l’essere fiamma) e farci capire sempre grazie alla metafora che per lui (che è fuoco) questo equivale alla morte. Sì è una storia d’amore (e bella) ma è anche uno dei film più acuti sui sentimenti degli immigrati.

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