Elegia americana, la recensione

Doveva essere l'esempio del cinema che guarda al cuore dell'America, e invece Elegia americana è una mascherata con poco senso e molta condiscendenza

Critico e giornalista cinematografico


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La disgrazia di Elegia americana è il suo nascere con una missione.

Il film è tratto dal libro omonimo che 4 anni fa arrivò con tempestività a raccontare la formazione difficile di un uomo di successo nelle campagne della rust belt, la parte più profonda e interna degli Stati Uniti. Fu accolto come un piccolo manuale per capire chi erano e come pensavano gli elettori di Trump. In quel momento questo film è entrato in cantiere (e fa ridere che arrivi ora su Netflix, a mandato finito).

Nelle mani di Ron Howard però è diventato un ritratto molto più dolceamaro, una specie di revisione al femminile e pessima del suo primo film dal discutibile titolo italiano Parenti amici e tanti guai.

Quella commedia con Steve Martin era un gioiellino di umorismo e piccole delicatezze sulla paternità (oltre che sulla parentela in generale), questa maternità violentissima (violenta la nonna, violenta la madre, ricco il figlio!?) invece è un dramma scritto per ammassare scene da gran recitazione e affidato a due attrici con alto potenziale Oscar. Un potenziale così alto che letteralmente si mangia Elegia americana a morsi fatti di scene madri. Scene madri fino allo stremo delle forze.

Ron Howard sempre più appare come un regista dalla volontà blandissima, abile a portare sempre e comunque le scene a casa e i film a casa, ma così malleabile da essere sballottato dagli eventi e dirigere film che prendono la forma della propria commissione. Bene quando sono ben concepiti, male quando sono problematici.

Nelle sue mani Elegia americana serve le sue attrici senza avere la forza di servire anche la storia. Andando avanti e indietro tra il presente di un quasi adulto che cerca di emanciparsi dalla famiglia campagnola e avere una vita di successo cittadino, e il passato a 13 anni, quando la madre ha iniziato a drogarsi, il racconto mette in mostra solo sentimenti eccessivi, scatenati da inezie. È il suo modo di raccontare le passioni furenti che tempestano l’anima, ma senza un vero racconto a supportarlo non va più in là delle urla. Capiamo che è tutto difficile ma mai abbiamo una visione, fosse anche solo sentimentale, di questo nucleo.

E come spesso accade anche tutto il lavoro per mettere in evidenza la recitazione è un boomerang. Glenn Close così mascherata e così sopra le righe è puro teatro e niente di cinema, una parodia del film da Oscar, una parodia dell’attrice in cerca di legittimazione, tutta accento e sguardi truci, sigarette e linguaggio scurrile. Amy Adams che altrove è bravissima con le nuances qui è spinta alle estreme conseguenze rovinando in poche scene la sua arte. Che incredibile apice creativo e artistico che deve essere sembrato questo film da dentro, durante la lavorazione. E che disastro è visto tutto insieme.

Questo pasticcione che si lascia guardare a fatica, spingendo alla distrazione di continuo, vorrebbe raccontare l’emancipazione di un uomo da un contesto difficile e una specie di rapporto di amore e odio con delle origini problematiche, con una famiglia in cui ognuno è giustificato da aver avuto anch’egli un’infanzia difficile. Tutto quel che Elegia americana riesce a dire però è il disprezzo cittadino per i campagnoli portato con quello che potrebbe essere definito "sguardo coloniale" se solo non fosse rivolto all'interno del proprio paese. In tutto un film nemmeno breve (2 ore) non c’è un momento in cui i personaggi siano guardati con un po’ di affetto, gli stessi che poi hanno battute e scene in cui devono manifestare grandi sentimenti gli uni verso gli altri.

E alla fine il montaggione musicale finale con i vari momenti che abbiamo già visto sembra proprio il tiro a canestro da centrocampo allo scadere del tempo. Il tentativo disperato e scomposto di segnare a tutti i costi.

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