El Paraíso: la recensione | Festival di Venezia

El Paraíso cade vittima della propria simbologia. Tre personaggi alla ricerca di un senso che si trova in un'immagine finale poco convincente

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La recensione di El Paraíso, presentato nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia 2023

Julio Cesar condivide con la madre, di origine Colombiana, una casa alla periferia di Roma. È un rapporto di affetto quasi soffocante. I due si guadagnano da vivere importando droga. Le sostanze arrivano tramite ovuli di plastica, nel corpo dei corrieri. Una di loro è Ines, una ragazza con cui Julio dimostra di avere una particolare affinità. Al loro legame però si sovrappone quello della madre possessiva, con un attaccamento morboso al figlio e vittima delle dipendenze. 

El Paraíso è diviso, come il suo protagonista, tra queste due donne. Ciascuno incarna un film differente: una storia d’amore ruvida e senza alcuna dolcezza; una storia di una famiglia disfunzionale, fatta di rapporti morbosi, non detti e traumi irrisolti. 

Era necessaria una buona costruzione dei personaggi all’inizio e uno sviluppo emotivo al centro per permettere al terzo atto di unire con successo questi due pezzi. Invece El paraíso procede quasi sempre per esclusione di alcune componenti. Come se non ci fosse sufficiente spazio in scena. Quando il focus è su una donna, l’altra è ai margini della sceneggiatura e viceversa. Quando affronta un tema, l'altro scompare. Ad un passo dal dunque, il film sceglie poi la più bizzarra delle soluzioni rimanendo a mano vuote e con una inevitabile delusione. 

Edoardo Pesce esprime tutta la passione possibile verso il progetto, ma non basta. Anche quando il film pare non avere idea di dove voler andare, la sua interpretazione è sempre sul battito giusto. Lavora però con molto poco. Intorno a lui accadono delle cose perchè devono accadere nella trama, senza che siano realmente inevitabili. 

El Paraíso dovrebbe essere un cinema di personaggi, ma fallisce proprio nel rendere questo triangolo di sentimenti realmente mosso da emozioni umane. Si fatica a comprendere un passaggio chiave a metà film. Un rifiuto che cambia tutto e una conseguente foga veramente fuori parte rispetto al carattere della persona che la esercita. 

La regia di Enrico Maria Artale si interessa soprattutto delle reazioni a ciò che accade, più che alle azioni. Però così facendo tutto perde di peso. Quando qualcuno sta per morire fatichiamo a intuire le conseguenze che questo potrebbe portare con sé. Quando qualcuno muore veramente, le conseguenze sono tutto ciò che rimane al film. 

È lì che El Paraíso si ingolfa. La Colombia è un pensiero fisso lungo tutto il film. Lo vediamo dalla insistenti e inutili scene di danza, quasi nessuna porta avanti la storia. Dovrebbero simboleggiare il bisogno di casa, di trovare i luoghi interiori, da parte di questa famiglia. Il dramma supera però il limite, diventa risibile per via di una soluzione che dovrebbe essere inevitabile ma che è poco credibile anche dal punto di vista pratico. 

Il film richiede negli ultimi minuti una sospensione dell’incredulità che non si prende mai la briga di assecondare con i necessari dettagli. C’è la polizia che rilascia senza troppi problemi chi, su un aereo, in stato visibilmente alterato ha avuto una reazione di panico violento al decollo! Tutto questo per arrivare a un’immagine simbolica che dovrebbe contenere tutto il film ma che invece risulta priva della delicatezza necessaria per colpire veramente. Invece che parlare dell’interiorità, un'inquadratura finale rivelerà tutta la superficialità di un film mai veramente ispirato nel trovare il modo più elegante per raggiungere le sue ambizioni drammatiche.

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