El Jockey, la recensione: fantini, gangster e droga degni di Kaurismaki

Con uno stile che oscilla tra l'umorismo di Aki Kaurismaki e la direzione da cartone animato di Wes Anderson, El Jockey mostra una contagiosa voglia di fare cinema

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La stasi di Kaurismäki e l’azione cartoonesca di Wes Anderson, usate per raccontare una storia di paradossale purificazione attraverso una breve transizione (con ritorno) da uomo a donna di un fantino ribelle al soldo della mala. Con una trama così, El Jockley (Kill The Jockey) non può non essere un film divertente. Il bello è che oltre a essere divertente è anche un film che vuole proprio divertirsi con il cinema, non solo con i dialoghi o le premesse.

Già la scelta di fare un film con presupposti criminali (il protagonista è usato dalla malavita per vincere, ma è troppo drogato e alcolizzato per farcela e gli sfugge di mano) nel mondo delle corse di cavalli e dei fantini, con una coppia innamorata ma disastrata di fantini, un incidente esilarante e quasi mortale che trasforma il protagonista in donna, rivela come Ortega abbia una certa insofferenza per regole e paletti e preferisca la libera creazione, assecondare le immagini che ha in testa e solo poi trovare espedienti di scrittura per incastrarle nel racconto. Cinema anarchico, che richiede una mano fermissima. E Ortega ce l'ha.

Lo si vede quando il fantino, sopravvissuto per miracolo all’incidente cavalcando un cavallo giapponese potentissimo ma che è abituato a girare in un altro senso rispetto a come si fa in Argentina e quindi finisce contro la staccionata, evade dall’ospedale con la testa fasciata e una pelliccia che lo fanno somigliare a qualcosa tra Marge Simpson e La moglie di Frankenstein. Capiamo con il passare dei minuti che è il preludio alla sua transizione a donna, come tale farà la parrucchiera per poi tornare uomo, purificato, sano e pulito a correre per altri mafiosi ancora.

Di Kaurismäki c’è un po’ tutto, a partire da questo personaggio che inizia derelitto tra sigarette, abiti sgualciti e una radio vecchia che manda musica da balera su tavoli in formica. Ci sono poi le facce dei personaggi secondari, l’umorismo deadpan e i contrasti (i gangster stanno in un ufficio che sembra quello di don Vito Coreleone ma hanno sempre un neonato in braccio). Di Wes Anderson invece c’è la passione per l’azione cartoonesca (il fallimento della prima corsa, dopo una preparazione altisonante, sembra preso dalle strisce dei Peanuts). Ma nel complesso El Jockey è scemo di una scempiaggine sua, originale, pieno di personalità e desiderio di raccontare non tanto una storia, ma scene che possano diventare un film. Ansioso di riprendere cavalli in corsa a perdifiato, gag fisiche o le facce spigolose di Ursula Corbero e Mariana Di Girolamo (che già fu Ema per Larraín). Questo è proprio un film da godere prima ancora che da comprendere, film per il cervelletto prima ancora che per il cervello.

Continua a leggere su BadTaste