El Conde, la recensione | Festival di Venezia

Più divertito, eccentrico e creativo che mai El Conde vive ben al di là del suo spunto eccezionale, esplorandolo con intelligenza e gusto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di El Conde, il film di Pablo Larrain presentato in concorso al festival di Venezia

Pablo Larrain è davvero un regista che sa divertirsi con il cinema. I suoi film hanno sempre delle idee chiare e una poetica precisa, come molti dei grandi autori internazionali, in più hanno quasi sempre una chiave inusuale che li rende eccezionalmente vivaci e dinamici. C’è proprio nelle sue immagini, anche quando sono drammatiche come in Tony Manero o Il club, una qualità attrattiva che nasce dal piacere di girare e creare qualcosa di curioso e poi manipolarlo ed esplorarlo con l’eccitazione di uno scolaretto. Divertirsi insomma. Stavolta è particolarmente evidente: Augusto Pinochet è vivo, ed è sempre stato un vampiro. C’è un’allegoria abbastanza diretta al centro di questa trovata, ma il piacere di Larrain sta tutto nell’esplorarla, nell’inventare una backstory, dei villain e poi in un colpo di grande senso, anche una geniale discendenza ribaltata, cioè un personaggio venuto dopo Pinochet che sarebbe sua madre.

Il protagonista di El Conde infatti non è il vampiro Pinochet (fenomenale quando vola in alta uniforme con la mantella) ma è la sua cerchia e i suoi familiari, che vampiri non sono e aspettano invano la sua morte per ereditare le fortune ammassate indebitamente. Esasperati si riuniscono per immaginare la sua morte (con paletti di frassino e tutto il corollario classico) ma non sanno che la donna che hanno ingaggiato e che li interroga (svelando le vere magagne finanziarie commesse da quella famiglia, in un fantastico rapporto di realtà/finzione) è una suora sotto copertura i cui veri intenti anche noi scopriremo lungo il film. El Conde è quindi una specie di processo agli eredi di Pinochet, una sorta di umiliazione creativa di personaggi finti messi di fronte ad azioni realmente commesse, prima di diventare un film sulla seduzione del potere (idea facile) e la distruzione di chi gli è prossimo.

A condurre tutto è Paula Luchsinger (già nella gang di Ema), una ragazza bella con un look particolare (di nuovo come in Ema) e uno sguardo allampanato e falsamente sereno, eccitato e rassicurante mentre inchioda gli altri. Luchsinger recita benissimo il ruolo, al tempo stesso divertita dalla cosa, ironica, indignata e anche arrabbiata con quel sorriso di condiscendenza che nasconde un desiderio di violenza. Ma siccome Larrain sa divertirsi il film supera anche questa fase, diventa proprio una storia di potere e vampirismo in cui la metafora è spinta molto in avanti per mostrare come chi gira intorno a qualcuno come Pinochet è molto peggiore di lui. I figli sono cospiratori perché questo è quello che quel tipo di potere fa alle persone, le disumanizza.

Non stupisce questo esito perché è quello che ha sempre raccontato Larrain (specialmente negli ultimi anni, da quando scrive insieme a Guillermo Calderon), uomini e donne violentati dal potere a cui sì avvicinano o che li ha educati e li domina in un modo o nell’altro, e quando la protagonista di questo film di tutti primi piani a mezzo busto dice proprio di “voler vivere con il diavolo, toccarlo e farsene toccare, per poter umiliare il potere di fronte ai suoi occhi” sembra davvero la sintesi dell’ardore di tanti personaggi di Larrain in una forma da horror classico che potrebbe sembrare una parodia se non fosse realizzata così bene, con così tanto divertimento e gusto per il piacere del cinema.

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