El Camino - Il film di Breaking Bad: la recensione
Con El Camino Vince Gilligan confeziona un racconto asciutto e rigoroso, ispirato nella scrittura e rispettoso dei fan
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Per sei anni Jesse Pinkman è sopravvissuto in un limbo sospeso tra la dannazione e la salvezza. In fuga dalla propria prigione, l'euforia del momento congelata in un eterno istante sul viso, forse libero, forse destinato a nuove catene. El Camino risponde a quella domanda, apre una parentesi chiusa in se stessa oltre il sipario insanguinato che era calato sul finale di Breaking Bad. Ci racconta gli spasmi, la frustrazione, lo sforzo quasi esistenziale per trarsi fuori da una condizione senza scampo. Vince Gilligan confeziona un racconto asciutto e rigoroso, tra il western contemporaneo e il thriller action, ispirato nella scrittura e rispettoso dei fan.
Il Jesse Pinkman protagonista del film non ha ormai nulla del personaggio degli esordi, né può affrontare un percorso di maturazione, compresso com'è nell'esigenza di sopravvivere. Per raccontarcelo, Gilligan si affida al potere evocativo dell'immagine, alla composizione di interni, al disordine scomposto raccontatoci da cicatrici, appartamenti devastati, banconote spiegazzate. Soprattutto, intrappola volentieri il suo protagonista, in tutti i modi che riesce a concepire. Gli spazi di El Camino – siano i moltissimi veicoli (e bagagliai), le cucine, i garage – sembrano concepiti a priori per contrarre Jesse, costringerlo a piegarsi, a nascondersi. E se ci sarà una porta aperta ogni tanto, è solo per ricordarci che da lì potrà arrivare una nuova minaccia.
In Aaron Paul trova il protagonista perfetto. Malgrado una fisicità del personaggio che non appare provata come dovrebbe nonostante la prigionia, questo è un personaggio a cui possiamo credere. Soprattutto, che non necessita di veder riempiti i propri silenzi. Jesse esiste nello spazio di una caratterizzazione lunga cinque stagioni, le cicatrici che porta dentro sono visibili tanto quanto quelle sul suo viso. Paul ne coglie fragilità e rabbia, immaturità e imperfezione, come accade in uno splendido confronto in un negozio di aspirapolveri. Gilligan lascia ribollire tutte queste emozioni, allungando i tempi delle scene, godendo della pura scrittura del momento.
Come accaduto in Better Call Saul, l'autore coglie lo spirito dell'operazione oltre le attese più scontate, riconoscendo alla propria creatura uno status di indipendenza, come accaduto di recente solo al film di Deadwood. Gilligan non piega tutto su una semplice operazione di autoriflessione su eventuali sensi di colpa (merito davvero la salvezza?), ma intuisce una riflessione più celata sulle aspirazioni e sul futuro. Soprattutto, in piena coerenza con il finale della serie – Jesse si rifiutava di essere ancora manipolato ancora da Walter – sulla capacità di decidere per se stessi.