La recensione di Ekskurzija, il film in concorso al festival di Locarno
È questo lo stile migliore in assoluto, oggi, per raccontare le storie di ragazzi, liceo, amori e coming of age. Non ci sono dubbi. E non nasce qui con questo film, nasce 20 anni fa con
La schivata di
Abdellatif Kechiche (cineasta che è stato così avanti che la sua influenza continueremo a sentirla per anni ancora).
Una Gunjak riprende benissimo da quel film sia lo spunto di un evento singolo intorno al quale si snodano voci, reazioni e conseguenze per tutto il film creando la storia, sia proprio lo stile, così vicino ai personaggi, così fondato su una recitazione naturalistica e una forte ricerca di spontaneità, dentro la quale il film può osservare quello che gli interessa di più, sì può lasciar attirare da certe espressioni e farsi sorprendere dagli inattesi regali della spontaneità. Non è facile, non si tratta nemmeno solo di dirigere bene un cast ampio di ragazzi (come questo film fa), ma proprio di trovare quelli giusti, perché nei cast ampi non possiamo ricordare tutti e capire tutti a meno che questi personaggi non possano essere capiti già con un primo sguardo. E così sono questi ragazzi: dei veri tipi, molti raccontano una storia solo con il fisico, il trucco e l’atteggiamento, prima ancora di pronunciare la prima battuta.
Il singolo evento in questo caso non è un bacio schivato come in Kechiche ma una bugia, raccontata all’inizio giocando a obbligo o verità. Una ragazza dice di aver fatto sesso anche se non è vero. Sarebbe la prima ad averlo fatto nella sua classe (o come precisa un’amica: “La prima ad ammetterlo” e già in questa precisazione c’è un mondo). Poi come conseguenza e per rafforzare la bugia ci aggiungerà il sospetto di essere incinta che in un attimo diventa nell’opinione generale una certezza e poi un problema per i genitori, uno sempre più grande.
Ekskurzija è un film di parole e battaglie verbali, tutto di interazioni giocato su tre palchi: in casa con famiglia, a scuola tra classe e bagni e negli esterni tra piazze e campi da basket. In questi luoghi un gruppo quasi sempre di ragazze si muove intorno a pregiudizi religiosi, timori, curiosità e malelingue, desiderando qualcosa che non può avere, mentre i ragazzi non esistono. Compaiono ogni tanto ma sono delle sfingi, muti e inespressivi, dei muri impossibili da conoscere, che non è chiaro mai cosa pensino e con i quali è difficile relazionarsi in modi significativi. È il vero senso di tutta una storia (in vero molto convenzionale, fatta di pregiudizi da paesino e conseguenze brutali sulle persone) che più che essere raccontata è indagata, con una gran bella curiosità per il mistero delle relazioni adolescenti, come se la regista non sapesse prima cosa avverrà e il suo sguardo fosse animato dalla nostra stessa curiosità e le nostre stesse domande.
È solo così che si possono raccontare le strane relazioni tra corpo e mente e come il secondo influenzi la prima lungo l’adolescenza, con questo stile europeo combattivo tutto macchina a mano attaccatissima ai volti, attenta alle espressioni naturali, alle frecciatine e alla combinazione mortale di mille voci differenti nella costruzione dell’identità individuale (come nella vita vera capiamo che ognuno è quello che immagina che gli altri pensino di lui o lei). Non con dettagli un po’ scolastici come le unghie lunghe e finte della protagonista, che ne simboleggiano il desiderio di essere più donna, ma seguendola a casa con il fratello, nelle panchine con i ragazzi, a scuola mentre ascolta conversazioni su di lei, creando il suo mondo e poi mettendocisi dentro con la videocamera.