Eileen, la recensione
Grande ritratto psicologico e noir morboso come non se ne vedono più, Eileen conferma William Oldroyd come regista da tenere d'occhio
La recensione di Eileen, il film diretto da William Oldroyd in sala dal 30 maggio.
A otto anni da Lady MacBeth (2016) che rivelò il talento di Florence Pugh, quest’opera seconda conferma William Oldroyd come uno dei cantori più interessanti della femminilità nel cinema contemporaneo. Che si tratti dell’Inghilterra vittoriana o del Massachussets degli anni ‘60, i suoi film sono trappole claustrofobiche in cui le protagoniste annaspano nei propri ruoli sociali come sepolte vive, costrette a reprimere un mondo interiore che scalcia per liberarsi. Non a caso sia Lady MacBeth che le dark lady del noir sono figure care alla letteratura femminista, che in queste donne demonizzate ma potentissime ha trovato esempi di un femminile che rifiuta di lasciarsi soggiogare.
Se la regia di Oldroyd trova sempre nuovi escamotage per suggerire l’irruzione dell’onirico nel quotidiano, e la sceneggiatura di Ottessa Moshfegh (dal suo romanzo omonimo) riesce in una sintesi che lascia in bocca un distinto sapore di racconto breve, il merito della riuscita sta anche moltissimo nel gioco antitetico fra le due protagoniste: Anne Hathaway si diverte un mondo come femme fatale con parrucca bionda alla Kathleen Turner, e Thomasin McKenzie azzecca la sua parte migliore in un underacting e in un’apparente ordinarietà che fanno miracoli nello sviare le aspettative del pubblico. Come nei migliori noir o nei film di David Lynch, si arriva alla fine di Eileen con la sensazione di aver sollevato il velo di una realtà banale per trovarci sotto qualcosa di contemporaneamente tristissimo e spaventoso - nascosto in bella vista sotto le nebbie della provincia.
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