Easy Living - La vita facile, la recensione
Languido e dilatato Easy Living non serve bene la sua trama e pare decisamente più concentrato sui dettagli d'epoca che sulla recitazione
L'esordio dei fratelli Miyakawa riesce contemporaneamente a far capire bene cosa voglia essere e a far vedere altrettanto chiaramente cosa non sia.
È chiaro che l’idea è fare un film di frontiera, sia spaziale che temporale. Ambientato a Ventimiglia, l’ultimo baluardo ligure prima della Francia, è la storia di un gruppo di persone che gira intorno ad un circolo di tennis, entra a contatto con un migrante e cerca di farlo passare in Francia. Siamo nel presente e anche se non ci sono più le frontiere lo stesso nel mondo di Easy Living, retrodatato nei costumi agli anni ‘70, la polizia ferma quasi tutte le macchine che si recano in Francia.
Oggetti, abiti, trucco, parrucco, automobili, usanze e ovviamente musica anni ‘70, come nei film di Wes Anderson il presente è vestito d’epoca, ma con una maniacalità decisamente maggiore nel riprendere, inquadrare e addobbare il film di oggetti fuori dal nostro tempo. Anche la messa in scena è in tono. E qui iniziano i problemi. In Easy Living tutte le soluzioni e le trovate che gridano anni ‘70 sono svuotate dalla loro funzione, si trovano nel film come citazione ma hanno ben poco senso. Lo zoom a schiaffo ad esempio non viene usata come sottolineatura espressionista, ma usato e basta, e pure un’inquadratura che presenta il protagonista con parte del volto coperta dal maglione dietro una rete come Antoine Doinel in I 400 colpi, non introduce similitudini tra i due personaggi, è solo lì come omaggio.
I fratelli Orso e Peter Miyakawa, che Easy Living l’hanno anche scritto, volevano evidentemente rompere qualche regola non scritta, creare una dimensione visiva unica e cerca di spiazzare ma lungo tutto il film non forniscono nemmeno un buon motivo per farlo. Momenti come l’inizio, in cui il montaggio stacca su chi sta parlando solo quando questi ha finito di farlo e un altro, fuoricampo, ha cominciato (invertendo il principio del campo/controcampo) o quelli in cui esibiscono un umorismo raramente centrato (e non c’è cosa peggiore di capire che un film sta cercando di far ridere) sembrano più finalizzati a mettere in mostra un’aspirazione che un risultato.
Non aiutano ad affezionarsi ai personaggi, che tra di loro non stringono mai legami che percepiamo come significativi, e non aiutano a seguire una storia che già di suo fatica ad avanzare.
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