È stata la mano di Dio, la recensione | Venezia 78

Di tutti gli amori di È stata la mano di Dio, le passioni e i desideri, in primo piano nulla è come il legame con Napoli in secondo piano

Critico e giornalista cinematografico


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È stata la mano di Dio, la recensione

Un film di Paolo Sorrentino senza musica non originale. Per giunta proprio quello sulla sua vita! Per larga parte della sua carriera (specialmente quella più esplosiva) era stata una delle caratteristiche più forti del suo cinema. Montaggi, selezioni, momenti in cui usare le canzoni, tutto suonava come una costruzione sulle spalle di Scorsese per andare altrove, in luoghi che il cinema italiano non sapeva esistessero. Per la prima volta invece la musica non originale non abita in un suo film. Anche se il protagonista gira sempre con un walkman, come fosse disegnato per un fumetto (sempre uguale con l’oggetto a caratterizzarlo), che ci fa capire quanto sia importante per lui, lo stesso noi non la ascoltiamo mai, non sappiamo mai che musica sia. Sorrentino tiene duro tutto un film di due ore, fa notare quella mancanza per tutto il tempo così da caricare l’ultima inquadratura, in cui la lascia uscire e il brano scelto (e come ci spiega il vero rapporto dietro la storia che abbiamo visto) inevitabilmente commuovono.

È stata la mano di Dio è un coming of age, per quanto inusuale, uno in cui le passioni sono tante, ma quell’amore che nei coming of age si scopre alla fine è solo per Napoli, che qui è interpretata dal mare. Il mare la rappresenta in un film che forse è quello con più tuffi degli anni recenti. È sempre presente il mare, chiude il film (prima dell’ultimissima scena dei titoli di coda) e lo apre con una panoramica ampissima, immensa, di mare e terra tutta drone, che poi stringe realizzando il sogno (irrealizzato) di Hitchcock per l’attacco di Psyco, partire da una veduta larga della città e avvicinarsi, stringere, stringere e stringere fino al dettaglio, che qui è una macchina degli anni ‘30 che corre sul lungomare.

Dalla cartolina più risaputa su Napoli, la ricerca del dettaglio estrae il film.

La formazione di Paolo Sorrentino (che qui si chiama Fabietto) dall’estate in cui si mormora che arriverà forse Maradona, tra chi ci crede e telefonate nella notte, fino all’eiaculazione di questo rapporto, il primo scudetto, è la ricerca di un senso per sé. A dominare è il desiderio sessuale, inappagato ovviamente ma capace di piegare la famiglia e i conoscenti, eppure l’impressione è che quella sia un’illusione. Quel godimento che tutti inseguono, incluso il protagonista, sottende molto altro. Il padre fedifrago in realtà costruisce un amore eccezionale con la madre (e l’idea cinematografica di usare il fischio per richiamarlo come fosse il campanello di Pavlov è inusuale per Sorrentino e fantastica, e che bravi Saponangelo e Servillo a dare la spallata necessaria per sfociare nella tenerezza!) mentre la zia con un corpo troppo attraente che impazzisce sembra Anita Ekberg di La dolce vita, l’ideale irraggiungibile.

Ma di nuovo è Napoli l’unico vero rapporto (e come se na parla con Antonio Capuano è molto bello). Questo film appartiene infatti alla schiera di titoli di Sorrentino in cui la città è cruciale (Le conseguenze dell’amore, Il Divo, La grande bellezza). Ogni momento importante avviene in una location non casuale, capace di interagire con la scena, informare noi e negoziare un senso più ampio del solo intreccio.

La mitologia napoletana è il filtro dei momenti di sogno, più audaci stilisticamente, tutti confinati al solo inizio, mentre i momenti di tenerezza sono tutti riservati ai genitori. Il resto del film invece purtroppo un po’ soffre di questi confinamenti e delle scelte schematiche (come del didascalismo nelle due terribili tirate su Maradona di Renato Carpentieri, quasi amatoriali nella loro sfacciataggine, inspiegabile in un film così misurato). Infatti, dopo un evento traumatico che ribalta tutto, È stata la mano di Dio cambia genere e passa da commedia a dramma. Siamo a metà e le vite di tutti peggiorano, finisce la spensieratezza ma anche la forza propulsiva del film, che proprio dalla commedia sa estrarre i suoi momenti migliori e raccontare con più forza l’indeterminatezza del proprio protagonista. È un peccato perché là dove servirebbe di più, dove il film si avventura nella parte meno narrativa e più complicata, il tono e il genere sono quelli meno funzionali e funzionanti. Solo un grande finale, in una location incredibile che sembra fuori dal nostro mondo, quasi metafisica (con un tuffo in mare ovviamente) e poi lo svelamento musicale, riequilibrano e aprono alla commozione.

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