È stata la mano di Dio, la recensione | Venezia 78
Di tutti gli amori di È stata la mano di Dio, le passioni e i desideri, in primo piano nulla è come il legame con Napoli in secondo piano
Un film di Paolo Sorrentino senza musica non originale. Per giunta proprio quello sulla sua vita! Per larga parte della sua carriera (specialmente quella più esplosiva) era stata una delle caratteristiche più forti del suo cinema. Montaggi, selezioni, momenti in cui usare le canzoni, tutto suonava come una costruzione sulle spalle di Scorsese per andare altrove, in luoghi che il cinema italiano non sapeva esistessero. Per la prima volta invece la musica non originale non abita in un suo film. Anche se il protagonista gira sempre con un walkman, come fosse disegnato per un fumetto (sempre uguale con l’oggetto a caratterizzarlo), che ci fa capire quanto sia importante per lui, lo stesso noi non la ascoltiamo mai, non sappiamo mai che musica sia. Sorrentino tiene duro tutto un film di due ore, fa notare quella mancanza per tutto il tempo così da caricare l’ultima inquadratura, in cui la lascia uscire e il brano scelto (e come ci spiega il vero rapporto dietro la storia che abbiamo visto) inevitabilmente commuovono.
Dalla cartolina più risaputa su Napoli, la ricerca del dettaglio estrae il film.
Ma di nuovo è Napoli l’unico vero rapporto (e come se na parla con Antonio Capuano è molto bello). Questo film appartiene infatti alla schiera di titoli di Sorrentino in cui la città è cruciale (Le conseguenze dell’amore, Il Divo, La grande bellezza). Ogni momento importante avviene in una location non casuale, capace di interagire con la scena, informare noi e negoziare un senso più ampio del solo intreccio.
La mitologia napoletana è il filtro dei momenti di sogno, più audaci stilisticamente, tutti confinati al solo inizio, mentre i momenti di tenerezza sono tutti riservati ai genitori. Il resto del film invece purtroppo un po’ soffre di questi confinamenti e delle scelte schematiche (come del didascalismo nelle due terribili tirate su Maradona di Renato Carpentieri, quasi amatoriali nella loro sfacciataggine, inspiegabile in un film così misurato). Infatti, dopo un evento traumatico che ribalta tutto, È stata la mano di Dio cambia genere e passa da commedia a dramma. Siamo a metà e le vite di tutti peggiorano, finisce la spensieratezza ma anche la forza propulsiva del film, che proprio dalla commedia sa estrarre i suoi momenti migliori e raccontare con più forza l’indeterminatezza del proprio protagonista. È un peccato perché là dove servirebbe di più, dove il film si avventura nella parte meno narrativa e più complicata, il tono e il genere sono quelli meno funzionali e funzionanti. Solo un grande finale, in una location incredibile che sembra fuori dal nostro mondo, quasi metafisica (con un tuffo in mare ovviamente) e poi lo svelamento musicale, riequilibrano e aprono alla commozione.