E poi c'è Katherine, la recensione
Storia di vecchio e nuovo, la grande presentatrice e comica che viene aiutata da un nuovo arrivo. Eppure E poi c'è Katherine parla davvero di noi
L’attrice Mindy Kaling interpreta e scrive la storia di una donna che viene assunta come autrice di un Late Night Show in decadenza, viene assunta perché a un certo punto la presentatrice e volto simbolo si accorge di non avere donne nel team di scrittura e ne pretende una. Lei è la prima a presentarsi, viene assunta anche se palesemente non ne ha le credenziali ma solo il sogno. Come spesso accade al cinema sarà proprio il suo approccio non convenzionale e privo dei paletti che gli altri hanno sviluppato nella loro carriera a risollevare lo show.
Non è insomma diverso da quello che Hollywood aveva raccontato con State Of Play (nel mondo del giornalismo una blogger deve lavorare con un reporter vecchio stampo) o Il Buongiorno del Mattino (in cui un anchor man di grande integrità si confronta con la conduttrice della frivola trasmissione del mattino perché il network ha bisogno di ascolti) e molti film prima di questi. È la storia di come il vecchio si rinnovi e crei qualcosa di buono tramite il contatto con quel nuovo che non capisce. L’eterno meccanismo da vampiro dello show business: succhiare il sangue dei giovani per rimanere giovani.
Se si è disposti a tollerare il fatto che E poi c’è Katherine la sua spallata al metoo la dia solo per finta, perché poi le due protagoniste si relazionano tra di loro esattamente come fanno gli uomini in film simili, senza alcuno specifico femminile (addirittura quando qualcuno tradirà qualcun altro, i discorsi che usciranno non saranno dissimili da quelli che potevano fare mariti e mogli degli anni ‘60 a parti invertite), è evidente che tocca con buona scrittura e buone interpretazioni il punto di tanti snodi moderni. In una maniera strana e distante ci parla di noi.