Dunkirk, la recensione

Pretestuosamente intrecciato ma anche mostruosamente capace di rendere il conflitto senza passare per gli uomini, Dunkirk impone un nuovo standard

Critico e giornalista cinematografico


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Nella prima scena di Dunkirk alcuni soldati vagano in un paesino disabitato, non sanno dove andare, sembrano in libera uscita, entrano in qualche casa e vivono momenti che paiono presi da un film di Malick fino a che improvvisi arrivano degli spari da qualche parte, devono scappare ma non sanno dove e muoiono senza inquadrature gloriose. Senza un chiaro perché. Senza poter fare molto.

È l’introduzione ad uno dei film di guerra più “puri” mai visti, oltre ad uno dei più grandiosi e originali, uno in cui gli uomini sono in secondo piano mentre in primo piano c’è la guerra stessa, il conflitto armato. Nolan mette subito in chiaro che, nonostante la guerra sia uno tra i soggetti più filmati e raccontati in assoluto dal cinema, lui ha trovato qualcosa da guardare, un elemento su cui incentrare la sua visione del conflitto bellico che nessuno aveva mai evidenziato con tale centralità: la noia, la calma innaturale e poi la morte che incombe ovunque, cioè la strana percezione del tempo da parte dei soldati.

Tutto il cinema di Nolan si gioca sulla differenza tra il tempo del racconto (quanto dura il film) e il tempo degli eventi narrati, mescolati per rendere evidente allo spettatore quanto siano diversi e metterlo alla prova. Capire come gli eventi nei vari strati di sogno di Inception (tutti a velocità diverse) accadano in contemporanea o come diverse gravità cambino il tempo in Interstellar o come ancora raccontare un film all’indietro ne cambi la percezione in Memento (senza contare il trucco finale di The Prestige, basato sul tempo, e le prove che il Joker impone a Batman, basate sulla contemporaneità degli eventi).

Non c’è gloria nella guerra per Nolan, non c’è nessun legame tra ciò che accade e ciò che viene tramandato

Stavolta sono le tre dimensioni del conflitto, via terra, via aerea e via mare, ad avere tre andamenti temporali diversi. Una storia dura una settimana, una dura un giorno e una dura un’ora ma noi le vediamo insieme, intrecciate, durare lo stesso tempo.

Se negli altri film l’espediente era funzionale a rendere un elemento della storia che gioca esso stesso con il tempo, in Dunkirk suona pretestuoso, non necessario né davvero funzionale alla comprensione di elementi della trama. Stavolta è solo uno dei modi in cui Nolan coinvolge il pubblico, come sempre chiedendogli di impegnarsi, mettendolo alla prova e costringendolo alla massima attenzione per comprendere cosa accada, in una sfida tra un narratore riluttante e uno spettatore assetato di informazioni. Sta in questo “trucco” il coinvolgimento in una storia di cui non si ricorderanno i personaggi, in cui non si saprà mai cosa vogliano, cosa sognino, cosa desiderino, ma che si fonda sul suo stesso meccanismo narrativo.

Questo film che nasconde la sua unica star dietro maschera per tutto il tempo, fancedolo recitare con il contorno occhi, desidera essere superiore ai personaggi, desidera essere la maniera stessa in cui è narrato. Il lavoro del regista più in primo piano della vita dei personaggi.

Per questo è incredibile il risultato raggiunto, la clamorosa potenza dell’intreccio costruito da Dunkirk in cui il piccolo e il grande sono insieme, l’assurdo (un uomo che va in guerra con il figlio in camicia e cardigan, come andasse al pub) e il necessario, la vita salvata e quella stroncata si susseguono con la stessa facilità e casualità, convivono senza darsi fastidio nelle inquadrature come nella realtà.
Con una parsimonia di parole impressionante Dunkirk per comunicare usa le luci del tramonto di Scala Al Paradiso e la durezza asciutta e secca di Uomini Veri (da cui prende anche lo stile di ripresa delle battaglie aeree, distruggendo in un attimo lo standard di Top Gun) ed è così duro, onesto e secco, così privo di ruffianerie da far risultare stonati i pochi momenti in cui si fa strada un pietismo superfluo. Gli esseri umani disumani di Nolan, così gelidi e razionali, una volta tanto potevano rimanere tali, una volta tanto potevano trovare l’epica solo tramite la loro dedizione e come incarnano il possibile trionfo della volontà.

Ma sono dettagli. In Dunkirk più dei sentimenti personali contano i cieli scuri e minacciosi o le acque nere inquadrate dal direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema (lo stesso di Lasciami Entrare e Lei). Conta di più la grandezza degli uomini come specie, capaci di organizzare, sacrificare, salvare e non arrendersi, delle storielle individuali. Non c’è infatti gloria nella guerra per Nolan, non c’è nessun legame tra ciò che accade e ciò che viene tramandato. Un capo di stato può ribaltare la sconfitta di Dunkirk in vittoria dello spirito tramite un discorso, un eroe vero che si sacrifica per altri uomini non sarà mai celebrato, un soldato che salva i commilitoni potrebbe essere da loro sacrificato e una vittima di un incidente scemo può invece diventare un eroe sui giornali. Questo regista che non crede nella leggenda, non crede nel sentimentalismo legato all’atto del raccontare, cerca di andare dritto alla verità della natura umana. Alla fine per Nolan nella guerra, ma anche nel cinema, l’esecuzione conta più della storia, l’aver “fatto”, aver dato tutto in un’impresa incredibile è molto più importante del motivo per cui lo si è fatto.

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