Dune, la recensione | Venezia 78

Primo atto di una storia più lunga, Dune non chiude niente ma apre a tutto, costruendo il corpo del leader su Chalamet

Critico e giornalista cinematografico


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Dune, la recensione

Denis Villeneuve è sopravvissuto a un tentato omicidio con Blade Runner 2049, film che poteva uccidere la carriera di chiunque. Operazione che non poteva essere di successo, visto il peso del precedente e che lui ha trasformato in un ottimo film (non fosse per gli obbligatori legami all’originale). Ancora in piedi, adesso attacca questo altro progetto folle con la frase: “I sogni sono messaggi dal profondo”. Lo annuncia una voce prima ancora del logo della Warner, una voce che ha lo stesso tono durissimo e mostruoso delle altre che Paul Atreides sentirà nella sua testa, non più soffiate e sussurrate come nel film di David Lynch (certo che idea quella là…) ma imperiose, perché tutto il film è imperioso. Dune è una costruzione grandiosa anche per le proporzioni dei blockbuster cui siamo abituati, e lo è non certo per la cifra spesa ma per il punto di vista assunto da Villeneuve: una storia di nobili, di nazioni e paesi, una storia politica, una storia mistica. Stupisce davvero con quale maestria sia riuscito a tenere tutto insieme dando conto delle diverse anime del racconto, tenendole separate, distinguibili eppure unite. Dopo due ore e mezza l’impressione è di aver scalfito la superficie di un racconto che vuole far sognare (e che avrà una seconda parte).

La storia è quella: una confederazione di casati e dinastie, un pianeta produttore di una materia prima fondamentale, la spezia, l’imperatore che manda la dinastia Atreides a gestire il pianeta al posto di quella Harkonnen, e la guerra tra le due ampiamente prevista e orchestrata proprio dall’imperatore. In mezzo gli indigeni del pianeta Arrakis che la spezia la respirano e dà loro gli occhi celesti (effetto ottenuto con la medesima punta di celeste e la medesima soluzione un po’ antica del film di Lynch) e ancora una profezia, arti psichiche, tecnologia e mistica insieme.

No, non c’è un cammeo di Alejandro Jodorowsky (chi ha visto Jodorowsky’s Dune poteva legittimamente pretenderlo, ma altri film verranno e c’è tempo per sperare) e non ci sono i suoi toni allucinati o quelli carnali di Lynch: la storia è condotta con rigore ed esattezza, è una parabola di design e casati nobiliari, non di piccole persone. In mezzo a tutto si muove forse l’unico possibile protagonista viste queste premesse, Timothée Chalamet, immediatamente definito a partire dal suo fisico. Così lo presenta Villeneuve, mostrando la sua struttura asciutta, magrissima per gli standard del cinema, e con una battuta di Jason Momoa proprio sulla sua assenza di muscolatura. Eppure (che attore!) ha nello sguardo la forza del leader. Sgomberato il campo dalla forza fisica, rimane la forza mentale e spirituale. Film dopo film il suo sta diventando il corpo per antonomasia della persona dotata, il giovane con il grande domani, un potenziale trattenuto in un’apparenza gracile e una mente affilata. Il resto del cast lavora al livello che conosciamo, ma lui è un’altra storia, incarna un tipo umano e un modello maschile che i blockbuster hanno dimenticato.

dune warner bros

C’è tanto in questo film a lungo fatto ascese e cadute, di sentimenti trattenuti, tensioni non dette e una forte attesa e senso del mistero che sono il segreto della sua riuscita. Non poteva mai lavorare a livello di intuizione come il film di Lynch e così va altrove Villeneuve, va nel rigore, sposa l’etica militare delle dinastie e l’esattezza visiva di un design eccezionale che cita Syd Mead nel grande palazzo di Arrakis, adora lavorare di costumi e gode nell’inquadrare e disegnare le dune del deserto (non c’è Roger Deakins alla fotografia ma Greig Fraser, grande occhio già alle luci di Rogue One e Zero Dark Thirty). Dune è cinema d’autore fatto con mezzi e appoggio degli studios tanto quanto lo era Blade Runner 2049, opera ibrida per il grande pubblico che ragiona come una per il mondo dei festival, attenta a lavorare sul linguaggio molto più del cinema mainstream e capace di fare anche grandissima azione.

Tutta la prima lunga parte è un manuale di come si introduce da zero un universo senza pedanteria, lavorando di parola tanto quanto di immagine, ponendo le basi di quel che dobbiamo sapere per goderci poi le soluzioni audaci (ad esempio nessuno spiega da dove venga il linguaggio di gesti minimi con cui Paul e la madre parlano, ma a un certo punto sarà utile all’azione). Alla fine capiremo che proprio tutto questo film è solo una introduzione che serve a mettere Paul Atreides là dove può scatenare qualcosa, e forse è l’unica pecca di questo Dune - Parte 1, di non avere un suo arco e non dare nessuna soddisfazione, come fosse la prima puntata di una serie. Per sua natura tutta potenza e non atto. I sogni e le visioni che fanno da teaser per i successivi capitoli fanno il resto, ci spiegano che non tutto quel che Paul vede che dovrà avverarsi lo farà esattamente come lo sogna (anche questo lo capiamo da noi) e getta le basi di una grande mitologia.

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