Dumbo, la recensione

Il secondo adattamento Disney di Tim Burton è in linea con la sua poetica ma non sembra il suo film più riuscito

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Le intenzioni di Tim Burton (e della Disney che l’ha voluto per questo film) sono subito chiare: Dumbo entra in scena come un freak. È tenuto nascosto nella paglia dalla madre e quando viene scoperto è subito soggetto al ludibrio, è un diverso deriso. In quell’istante (forse la scena più compiuta e precisa del film) Tim Burton esegue due movimenti allo stesso tempo. Prima stabilisce il protagonista come un outsider e poi il circo come la sua casa, una famiglia che proprio in quel momento ci appare come composta da emarginati che insieme formano un gruppo.

Questa volta Tim Burton non deve adattare a sé l’ennesimo remake o adattamento della sua filmografia (siamo a ben 7 su 19 titoli totali), perché Dumbo è già una storia da Tim Burton, una di emarginazione in cui i diversi e gli esclusi si uniscono per trionfare su una massa che li disprezza fino a che non si dimostrano migliori di loro. Ma se il film originale era una storia di american dream, in cui per essere integrati bisogna trovare il successo, questo remake cerca di andare altrove, sbriga la trama che conosciamo in 20 minuti (con una valanga di riferimenti, citazioni e strizzate d’occhio alle scene e i personaggi più noti del film, tutti tranne i corvi, cancellati dalla memoria per il loro retrogusto un po’ razzista) e poi la supera sconfinando in una storia di umani e animali.

Dumbo è già una storia da Tim Burton, una di emarginazione in cui i diversi e gli esclusi si uniscono per trionfare su una massa che li disprezzaDumbo sa volare e diventa la grande attrazione di un circo piccolo che a questo punto è interessante per i magnati dell’intrattenimento e dei parchi giochi. Il successo non è più il punto della storia, non ne è più la soluzione, non è quello che cercano i personaggi. Vogliono essere liberi, vogliono trovare la propria strada e la felicità. È evidente che ci sia Burton stesso in questa trama di una serie di artisti che lavorano da indipendenti tra mille difficoltà economiche e dopo che trovano il successo sono presi da una grande compagnia che gli offre di risolvergli i problemi economici a patto che facciano per loro lo stesso spettacolo più in grande, almeno fino a che le esigenze e le logiche commerciali non rovinano tutto. È la dialettica tra artisti e sistema che vige a Hollywood ed è quello che è spesso capitato a Burton, da sempre cocco delle major ma senza particolare soddisfazione.

Tutto questo impeccabile burtonismo si scontra però con una realizzazione non impeccabile. Dumbo è un film con un montaggio discutibile, in certi casi poco comprensibile (segno di una mano non sicurissima sul set) e non sempre gli effetti digitali sono a livello delle creazioni più clamorose (su tutte il protagonista). Ad esempio quando Eva Green cavalca Dumbo tra montaggio mirato a nascondere ed effetti non perfetti si ha la sensazione che si voglia far vedere il meno possibile e sbrigarsi a chiudere la scena.

E se il film si salva centrando il tono tenerissimo di una parabola che come l’originale è destinata a un pubblico molto infantile, a non uscirne benissimo (di nuovo) è Tim Burton che in una storia perfetta per lui confeziona un film che raggiunge l’obiettivo più superficiale (tenerezza, commozione, pubblico infantile) mancando quelli più seri che invece poteva conquistare.

Continua a leggere su BadTaste