Due donne, la recensione
Pervaso da una nostalgia per una vecchia Hollywood, Due donne di Rebecca Hall è un convincente dramma che affronta la questione razziale sotto il profilo identitario
C’è un grandissimo sentimento nostalgico che pervade Due donne di Rebecca Hall. È la nostalgia per un certo tipo di vecchio cinema hollywoodiano, qui formalmente rievocato dal quattro terzi (il cosiddetto “formato Academy”, che era appunto lo standard della Hollywood classica prima che arrivasse il Cinemascope) e dall’uso di un bianco e nero dalla consistenza fotografica, in questo caso illuminato con luce naturale, in cui sono i primi piani il centro focale di tutta la drammaturgia visiva. Due donne questo preciso lavoro “all’indietro” lo compie magnificamente, costruendo quadri quasi teatrali, estremamente posati, e anche se l’esordiente alla regia Rebecca Hall non lavora granché sui piani della profondità visiva (un vero peccato) il risultato è comunque, solido, coerente, a tratti poetico.
La questione razziale Rebecca Hall - qui anche sceneggiatrice e che riadatta il romanzo di Nella Larsen - la affronta come una questione totalmente identitaria, che non si combatte nelle strade ma si costruisce nelle case. E l’affermazione dell’identità (che forse vuole prevalere sull’altro per affermarsi) è una negoziazione costante, possibilmente infinita. È ciò che silenziosamente ossessiona Irene in una paranoia noir, dove la dark lady Clare è l’elemento perturbante e sempre ambiguo che la porta all’ossessione. Questa mossa è chiarissima, raffinata, e si declina in paradossali camuffamenti, dubbi sull’educazione dei figli (devono sapere o no cos’è un linciaggio?) e ambiguità sociali che si giocano nel campo della quotidianità, del costume: cosa dice di me la persona con cui ballo? E le persone che frequento?E il fatto che ho una domestica?
Ecco, questa visione autoriale, quando si deve arrivare al sodo, alla fine non riesce a chiudere le fila del discorso, a dare quel senso preciso a cui aspirava, rimanendo fin troppo ambiguo. C’è inoltre quasi sempre un piccolo elemento di disturbo - che sia parola di troppo, uno snodo troppo lento e uno un po’ troppo prevedibile - che altera l’equilibrio di questo lavoro. Ed è un’incompiutezza che è tanto più amara quanto più vicino era l’obiettivo.
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