Due donne, la recensione

Pervaso da una nostalgia per una vecchia Hollywood, Due donne di Rebecca Hall è un convincente dramma che affronta la questione razziale sotto il profilo identitario

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Due donne, la recensione

C’è un grandissimo sentimento nostalgico che pervade Due donne di Rebecca Hall. È la nostalgia per un certo tipo di vecchio cinema hollywoodiano, qui formalmente rievocato dal quattro terzi (il cosiddetto “formato Academy”, che era appunto lo standard della Hollywood classica prima che arrivasse il Cinemascope) e dall’uso di un bianco e nero dalla consistenza fotografica, in questo caso illuminato con luce naturale, in cui sono i primi piani il centro focale di tutta la drammaturgia visiva. Due donne questo preciso lavoro “all’indietro” lo compie magnificamente, costruendo quadri quasi teatrali, estremamente posati, e anche se l’esordiente alla regia Rebecca Hall non lavora granché sui piani della profondità visiva (un vero peccato) il risultato è comunque, solido, coerente, a tratti poetico.

In questo dramma ambientato nella New York degli anni Venti, spesso cupo, meditativo, in interessante contrapposizione con le continue feste che mette in mostra, la protagonista Irene (una Tessa Thompson che ricerca la disperazione in uno straziante e convincente minimalismo) riallaccia i rapporti dopo anni conClare (Ruth Negga), come lei afroamericana ma che, apparentemente senza rimorso, avendo una pelle chiara si spaccia per bianca per condurre una vita agiata. Con un’ambiguità tra l’invidia e il disprezzo tutt’altro che mélo, dopo l’invadente arrivo di Clare nello spazio della sua casa, nell’intimità della sua famiglia, alla ricerca disperata di un’identità perduta, Irene metterà invece in discussione i suoi moralismi, le sue certezze, vacillando profondamente.

La questione razziale Rebecca Hall - qui anche sceneggiatrice e che riadatta il romanzo di Nella Larsen - la affronta come una questione totalmente identitaria, che non si combatte nelle strade ma si costruisce nelle case. E l’affermazione dell’identità (che forse vuole prevalere sull’altro per affermarsi) è una negoziazione costante, possibilmente infinita. È ciò che silenziosamente ossessiona Irene in una paranoia noir, dove la dark lady Clare è l’elemento perturbante e sempre ambiguo che la porta all’ossessione. Questa mossa è chiarissima, raffinata, e si declina in paradossali camuffamenti, dubbi sull’educazione dei figli (devono sapere o no cos’è un linciaggio?) e ambiguità sociali che si giocano nel campo della quotidianità, del costume: cosa dice di me la persona con cui ballo? E le persone che frequento?E il fatto che ho una domestica?

A ben guardarci, la più grande nostalgia di Due donne è però quella per un cinema che doveva (per codici etici) trattenersi ma che proprio grazie alle limitazioni lavorarava sul sottotesto con una potenza metaforica spiazzante. Due donne è piuttosto vicino a quel risultato: è infatti la trama relazionale tra le due donne che guida il film, ne costruisce il percorso narrativo (e chiude il cerchio) mentre l’intenzione autoriale - ovvero parlare di razzismo e identità - è ciò che in realtà permette di leggere in profondità il film. È ciò che illumina le “frivolezze” di una luce inquietante, è ciò che non si palesa, mai la cui presenza è determinante.

Ecco, questa visione autoriale, quando si deve arrivare al sodo, alla fine non riesce a chiudere le fila del discorso, a dare quel senso preciso a cui aspirava, rimanendo fin troppo ambiguo. C’è inoltre quasi sempre un piccolo elemento di disturbo - che sia parola di troppo, uno snodo troppo lento e uno un po’ troppo prevedibile - che altera l’equilibrio di questo lavoro.  Ed è un’incompiutezza che è tanto più amara quanto più vicino era l’obiettivo.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Due donne? Scrivetelo nei commenti!

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