Drive Me Home, la recensione

Senza verve, senza brio, senza un lavoro serio sulle immagini ma abbandonato ai suoi silenzi, Drive Me Home sfocia subito nella noia

Critico e giornalista cinematografico


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Dalla Germania fino alla Sicilia, in questo film italiano (ancora una volta) si viaggia verso il Sud per ritrovare se stessi. Il movimento dal nord al sud, ma anche dal centro città alla provincia, come modo per recuperare le fila della propria umanità è diventata la modalità espressiva più usata del cinema italiano. Qui in Drive Me Home si parte dall’estero, da una situazione in cui due amici si reincontrano dopo vent’anni: uno è inguaiato di debiti, l’altro un camionista con tempi di consegna stretti. Lo stesso devieranno, si divertiranno, scopriranno cose su di sé e litigheranno come in qualsiasi road movie.

Ed è proprio questa la tragedia di Drive Me Home, di essere come qualsiasi road movie, e quando non lo è di essere come qualsiasi film italiano. Vinicio Marchioni e Marco D’Amore (abbastanza buona la chimica tra i due) recitano con un siciliano a corrente alternata, li vediamo interpretati da due attori più giovani in un flashback iniziale e poi adulti. I ragazzi hanno un siciliano marcatissimo, loro meno. Occasionale. Vogliono essere molto intensi (specie D’Amore che ha una predilezione per il sentimentalismo sofferto), ma finiscono per perdersi quasi subito in un film la cui vaghezza si traduce solo in noia.
Già a partire dai primi 20 minuti, Drive Me Home fluttua nel vuoto, e quanto più grave lo fa lavorando pochissimo di scrittura e di messa in scena.

C’è ovviamente un continuo rimando di informazioni che il film non dà così da dosarle lungo tutta la sua durata ma nel mentre i minuti passano senza nulla di interessante o di utile a raccontarci i personaggi. Non lo è di certo il rapporto tra i due che si reincontrano, non lo sono le piccole avventure che hanno e non lo sono i momenti più intimi. Non lo è purtroppo nemmeno la dimensione visiva, molto moderata, tenuta a bada e marginalizzata come capita nei film italiani, tarata su uno standard inoffensivo come fosse al servizio della sceneggiatura. Il mondo dei camionisti, dei locali e poi dei pasti in strada (idea che poteva non essere male) è guardata con la tenue e innocua asetticità di cui il cinema italiano è maestro.

E così alla fine accade che la soluzione più abusata dal cinema con poche idee (per l’appunto il road movie) sia qui usata senza una ragione specifica, solo come espediente per creare almeno un po’ di dinamismo in attesa del finale.

Senza nessuna sorpresa andremo a finire dove vanno molti film nostrani, nell’elogio della vita lenta, della campagna, dei ritmi di una volta, della natura e nel disprezzo dell’opposto, cioè di una vita fatta di un lavoro dai tempi stretti. La risposta del cinema alle questioni dei suoi personaggi è sempre quella: scappare, tornare indietro nel tempo, e di film in film diventa sempre più un clichè che non necessita nemmeno di spiegazioni. È così e basta.

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