Dracula (prima stagione): la recensione

La rilettura di Moffat e Gatiss del Dracula di Bram Stoker non convince, alternando in modo incoerente umorismo macabro e ambizioni melodrammatiche

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Spoiler Alert

DRACULA, LA RECENSIONE DELLA SERIE DISPONIBILE SU NETFLIX

“Nessuno è perfetto”, dice il Conte Dracula (Claes Bang) a Jonathan Harker (John Heffernan) nel primo episodio della serie di Steven Moffat Mark Gatiss liberamente ispirata al celeberrimo testo di Bram Stoker; una frase non a caso derivativa, che dalla sua pristina consacrazione in A Qualcuno Piace Caldo in poi ha vissuto innumerevoli vite, fino ad arrivare a questo bizzarro adattamento del più famoso romanzo gotico della storia della letteratura.

Nemmeno questo Dracula è perfetto, e certo non vuole esserlo nel suo continuo, quasi ossessivo pasticciare suggestioni da horror stile Hammer e strizzate d’occhio alla contemporaneità più tecnologica e social; muove infatti i passi dalla Transilvania di fine ‘800, come la maggior parte delle trasposizioni finora tentate dal cinema, per arrivare alla Londra dei nostri giorni, diluendo il viaggio del sanguinario conte dalle poche settimane di Stoker ai centoventitré anni di Moffat e Gatiss.

Il percorso non è certo privo d’inciampi, e ci si trova fin troppo spesso a chiedersi se i due sceneggiatori stiano tentando ancora una volta la strada intrapresa nelle ultime due stagioni di Sherlock, che sembravano privilegiare la sagacia degli scambi dialogici a una solida e convincente costruzione drammatica; anche qui, il delicato equilibrio tra horror e umorismo non sempre è in grado di supplire a una discontinuità che si fa via via sempre più evidente e fastidiosa.

Come detto, il primo episodio si svolge quasi interamente in Transilvania, focalizzandosi sulla curiosa relazione tra il conte e Jonathan. Mina (Morfydd Clark), promessa sposa di Jonathan al centro di quasi ogni versione filmica del romanzo di Stoker, diventa qui un personaggio che eufemisticamente definiremo periferico, e che scompare quasi del tutto dopo il primo episodio, venendo fugacemente nominata nel capitolo finale della miniserie.

Scelta originale che desta il nostro interesse e non ha immediate ripercussioni, perché l’attenzione della puntata iniziale di Dracula sembra essere concentrata sul rapporto tra il conte e l’avvocato. L’incipit ci mostra un Jonathan in un convento di Budapest, orribilmente appassito, mentre racconta in dettaglio a Suor Agatha (Dolly Wells) il suo soggiorno nell’inquietante maniero del conte. Non è questa l’unica deviazione iniziale rispetto al romanzo di Stoker, e Jonathan si distacca definitivamente dal personaggio letterario grazie a un colpo di scena che non manca d’impressionare e far ben sperare per il prosieguo dello show

Perché sì, questo Dracula figlio di BBC e Netflix parte davvero col piede giusto e, se avesse mantenuto intatta la bizzarra ma accattivante amalgama di humour e horror vista nel suo pilota, non avremmo esitato a elogiarla senza riserve. Purtroppo, i problemi già presenti nella prima puntata trovano amplificazione nel secondo capitolo, costruito come un giallo alla Dieci Piccoli Indiani modellato sul viaggio navale intrapreso dal conte verso l’Inghilterra, dove sostiene che troverà sangue fresco e, possibilmente, meno bigotto di quello assaporato in patria.

Suor Agatha (che nel frattempo abbiamo scoperto essere trasposizione del personaggio del professor Abraham van Helsing) segue il conte nella sua traversata, trattata dal vampiro come una bottiglia di vino pregiato da centellinare, e si delinea come eroe contrapposto al protagonista: le sue interazioni con Dracula assurgono a punto cardine della miniserie, almeno finché il vampiro non emerge dalle acque dell’oceano per ritrovarsi nel ventunesimo secolo dopo un sonno ultracentenario tra i flutti.

E lì, sulle spiagge inglesi, col conte illuminato dall’alto da un fascio di luce mentre gli si fa innanzi la discendente identica di Suor Agatha, Dracula perde definitivamente ogni parvenza di equilibrio drammatico, divenendo una creatura ibrida e scialba che poco o niente ha a che vedere con le prime due puntate. Sia chiaro: anche l’opera letteraria originale non era esente da incongruenze interne, ma riluceva forte di una mirabile armonia di toni e tematiche che riuscivano a garantirle un’unitarietà indiscutibile.

Se l’adattamento di Dracula alla vita contemporanea può certo strappare qualche sorriso, l’ironia dissacrante delle prime due puntate sembra essersi dispersa tra le onde dell’oceano come buona parte dell’equipaggio della Demeter. Ad accogliere metaforicamente il conte al suo arrivo in Inghilterra troviamo gli eroi restanti del romanzo stokeriano, vittime qui di una modernizzazione impoverente che li riduce a un manipolo di personaggi vacui e spesso noiosi: Lucy Westenra (Lydia West) è una social-addicted festaiola e glitterata, Quincey Morris (Phil Dunster) poco più che una comparsa caratterizzata da colposa superficialità, e Jack Seward (Matthew Beard) un timido studente che alterna dolcezza e inquietudine.

Non c’è, di per sé, errore intrinseco nella scelta di cambiare le caratteristiche di alcuni personaggi dell’opera originaria; ciò che possiamo imputare a Gatiss e Moffat è la leggerezza con cui hanno deciso di ridipingere i suddetti protagonisti - che nel romanzo di Stoker assurgono talvolta al ruolo di veri e propri eroi - in una chiave che non li rende minimamente più affascinanti agli occhi del pubblico contemporaneo: è una rilettura manierista fine a se stessa, che nulla aggiunge e molto sottrae in considerazione del potenziale drammatico di queste figure.

Traghettati dall’implausibile rapporto tra Lucy e Dracula - peraltro smentito nelle ultime scene della serie - arriviamo al finale pseudo-romantico, tanto scollegato dal resto del prodotto da sembrarvi infilato a forza da un altro show. Qui, dal nulla, Moffat e Gatiss decidono di sottoporre il loro conte Dracula a una metamorfosi in extremis, atta a dargli una coscienza fino a quel momento inesistente. Nel far ciò, ironia della sorte, i due autori inglesi demoliscono quanto di buono costruito fino a quel momento: la peculiarità del loro vampiro era figlia del piacere edonista con cui perpetrava le proprie atrocità, distaccandosi di netto dal cavaliere innamorato e disperato che il cinema ci ha proposto innumerevoli volte.

Quasi pentendosi di aver intrapreso una strada raramente battuta, Gatiss e Moffat fanno marcia indietro nel modo più goffo, adombrando il fascino scanzonato dell’eroe che hanno costruito con una patina di melodramma stantio e, in questo caso, del tutto incoerente rispetto a quanto seminato. Si tratta, duole dirlo, di un’inversione di tendenza che affloscia di colpo la curiosità dello spettatore, lasciandolo perplesso di fronte a un finale che rende retroattivamente confusa l’intera operazione Dracula.

Al netto delle falle sopra indicate, questo squilibrato adattamento ha però dei meriti indiscutibili, a partire dalle performance di un cast ottimamente scelto che trova nel carismatico Bang la sua stella polare. Tuttavia, non è abbastanza da decretare quella promozione che ci saremmo aspettati di poter elargire a un prodotto di questa caratura; con la sua tracotante incoerenza interna, Dracula prende il largo seducente e diabolica come il suo protagonista, per poi affondare mestamente nel mare di un pastiche melodrammatico che non sorprende né diverte. Non ci resta che piangere di fronte a una splendida occasione sprecata.

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