Downton Abbey (quinta stagione): la recensione
La quinta stagione di Downton Abbey: scopriamo cosa è accaduto alla famiglia Crawley
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"There's nothing simpler than avoiding people you don't like. Avoiding one's friends, that's the real test."
La quarta stagione di Downton Abbey viveva inevitabilmente di luce riflessa rispetto alle tragedie che avevano scosso la famiglia Crawley l'anno precedente. Era impossibile ignorarle. D'altra parte questo quinto anno, che riparte cronologicamente alcuni mesi dopo lo speciale di Natale dello scorsa stagione, sembra più libero di giocare con i personaggi. Mary (Michelle Dockery) ha superato il lutto ed è ansiosa – lo dice lei stessa – di sposarsi. La sua scelta tra i vari pretendenti la condurrà su una strada diversa rispetto a quella seguita dal suo personaggio finora. La sua personalità gelida e distaccata rimane, ma c'è anche un maggiore desiderio di sperimentare, di avvicinarsi a quei cambiamenti culturali che ormai si avvertono nell'aria, fossero questi un semplice cambio di pettinatura o la voglia di vivere il rapporto con un pretendente in modo diverso rispetto alla tradizione. È questo l'obiettivo di una scrittura che per il resto non sembra aver mai nemmeno tentato di rimpiazzare la storica coppia Mary-Matthew.
Funziona meglio allora l'intreccio di situazioni legate alla servitù. La stagione si apre con un comitato cittadino che richiede Carson alla guida della realizzazione di un monumento ai caduti della Grande Guerra. E quella che poteva essere gestita come una parentesi in uno/due episodi in realtà viene spalmata su tutta la stagione allargando le maglie e inglobando in qualche modo anche il conte di Grantham (Hugh Bonneville), Mrs. Patmore (Lesley Nicol) e anche Sarah Bunting (Daisy Lewis), l'insegnante amica di Tom. Intanto la grande problematica legata all'omicidio di Green viene ripresa negli ultimi episodi, e rimandata nella sua conclusione allo speciale di Natale, se non direttamente al prossimo anno: non è una storyline troppo ingombrante quella dei coniugi Bates, ma c'è un grande senso di già visto nelle cronache di questi poveri amanti.
Lo stile, ciò che ha reso grande Downton Abbey, è ancora intatto. C'è il fascino e un interesse ancora integro verso questo universo d'altri tempi, verso questa "Regola del gioco" che si aggrappa ad un passato ormai finito e un futuro ignoto e che spaventa (la scena dell'ascolto alla radio del discorso di re Giorgio V, con relative considerazioni, è illuminante). Dove poi non arrivano le vicende personali dei molti protagonisti, per la maggior parte probabilmente ormai al capolinea delle loro possibiltà narrative, giunge in aiuto l'empatia verso questo mondo un po' cortese e un po' ipocrita, un po' rispettoso e un po' rassicurante nel suo essere ancora all'oscuro degli orrori che sarebbero arrivati di lì a non molto tempo. La magia della serie di Julian Fellowes non durerà ancora a lungo, ma finché esisterà, sarà un piacere seguire Downton Abbey.