Downton Abbey 2 - Una nuova era, la recensione

Torna la fiera dell'indignazione per i costumi contemporanei di Downton Abbey, questa volta con ancora più implausibile tolleranza e fede nel classismo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Downton Abbey: Una nuova era, in uscita il 28 aprile

Torna la fiera dell’indignazione e dello scandalizzarsi per i costumi oltraggiosi dei non nobili o anche solo del tempo presente. Torna Downton Abbey, ormai giunto alla fine degli anni ‘20, quando il cinema sta diventando sonoro, cosa di cui farà esperienza tutto il maniero, bisognoso di soldi per riparare il tetto e quindi pronto a piegarsi malvolentieri ad ospitare la gentaglia del cinema al lavoro su un film con alcune star che fanno fibrillare la servitù. È solo metà della trama, la parte leggera, mentre il cast principale se ne va nel sud della Francia a valutare un altro maniero piovuto dal cielo con un’eredità e, lo scopriranno in loco, rivelazioni sul passato di Lady Violet Crawley.

Sempre più leggero, edulcorato, caramelloso e menzognero, Downton Abbey 2 - Una nuova era è una passeggiata vacanziera con piccole trame autoconclusive e un finale che tutto insieme porta le svolte attese e annunciate già nel finale del primo lungometraggio. Tutto ovviamente lungo un eterno rimanere scandalizzati, un unico grande disgusto e sbigottimento, che poi è l’unica soluzione umoristica che il film sembra avere a disposizione. Non a caso la parte ambientata in Francia troverà un’altra Maggie Smith, cioè un’altra patriarca custode della tradizione e della conservazione con cui instaurare le medesime dinamiche di incomprensione e garbata resistenza al mutamento. Non una grande fantasia.

Perché di quello si nutre Downton Abbey, della celebrazione della conservazione dello status quo, e questo non può esistere senza mutamento. Non si può cioè celebrare il lavoro di salvaguardia della tradizione (con strategiche aperture a nuovi costumi accuratamente selezionati) senza che il mondo intorno non manifesti cambiamento. E qui il cambio è simboleggiato dall’arrivo del sonoro. La produzione cinematografica, nel mezzo della lavorazione, riceve l’ordine di diventare sonora, con massimo scorno della grande attrice, star del muto con pessima voce (come Cantando sotto la pioggia) che teme la fine della carriera. Anche lì il mutamento arriverà ma cercando di mantenere intatti gli equilibri e lasciare che in cima rimanga chi c’è già (nel caso specifico una popolana, ma poco cambia).

Downton Abbey fa infatti il lavoro delle grandi produzioni nazionali: la reiterazione e conferma dello spirito nazionale e dei valori fondanti del paese che la produce. Rafforza il sentire comune e la basi sociali in una versione (ovviamente) dorata ed edulcorata in cui il tipico classismo britannico è frutto di quell’amore, di quella tolleranze e di quella concordanza con le classi subalterne che può esistere solo nella testa della parte privilegiata dell’equazione. Non a caso, come da copione, la servitù potrà essere decisiva per la trama che riguarda il film nel film ma senza uscire dal seminato, in linea con i valori britannici: il sistema funziona quando ognuno fa la propria parte rimanendo al posto assegnato.

Anche i signori lo dimostreranno con un colpo che (non a caso) abbiamo visto più volte sfruttato e spiegato nella ben più sofisticata The Crown. Ci sarà chi rinuncerà all’amore dicendo esplicitamente che la propria felicità e il proprio desiderio non sono la cosa più importante (intendendo che il ruolo nella tenuta di Downton Abbey stessa, allegoria del paese tutto, ha la precedenza), e chi se ne andrà dalla serie ribadendo il medesimo concetto, che prima del proprio piacere viene sempre il benessere del sistema e la conservazione dello status quo.

Anche in questo senso, considerato tutto l’afflato conservatore, il contesto e gli anni (circa 1928), una sottotrama di accettazione dell’omosessualità farà abbastanza sorridere per implausibile ingenuità.

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