Dovlatov - I libri invisibili, la recensione
Dovlatov - I libri invisibili di Aleksey German Jr. è un biopic dal tono delicato, che con un'insospettabile potenza racconta un intero mondo di desideri e di dilemmi artistici e morali
Una settimana nella vita dello scrittore Sergei Dovlatov è la sineddoche di un’intera esistenza fatta di dubbi, incertezze, dilemmi morali. Tra il deludente lavoro come reporter e l’aspirazione a scrivere un grande romanzo, Dovlatov (Milan Maric) non riesce a stare ai compromessi, né privati né artistici. E, come risultato, non fa che continuare a sognare un futuro glorioso che esiste solo nei suoi desideri, e che si avvererà solo dopo la sua morte (come ci informa il film tramite un cartello finale).
L’URSS degli anni Settanta assume qui un’inquietante presenza, non si vede mai nelle sue istituzioni riconoscibili, nei suoi simboli, ma la si percepisce eccome nel meccanismo stesso della società, a qualsiasi livello la si osservi. Il regista e sceneggiatore Aleksey German Jr. Ce la mostra tanto semplicemente quanto efficacemente tramite gli uffici e le redazioni dove Dovlatov cerca di farsi pubblicare, nelle richieste di storie eroiche, nel commercio illegale di beni e nei festini che gli outsider come lui portano avanti come ultimo baluardo di resistenza ai dogmi.
Tra piccoli ritratti di artisti, scene di dolcezza fraterna, dialoghi asciutti e soprattutto visioni spesso d’insieme, con riquadri pieni di persone, di oggetti, di cose che accadono in continuazione, Aleksey German Jr. trova il suo equilibrio narrativo ed estetico. Un equilibrio delicato, che per cogliere appieno e in modo soddisfacente bisogna avere la pazienza di lasciarsi trasportare non dalla trama - apparentemente senza un punto d’arrivo - ma da ogni singolo pezzo di strada che Dovlatov ci porta a scoprire.
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