Dostoevskij, la recensione
Dostoevskij è un viaggio nell'animo dei suoi registi: un'immersione dentro un corpo filmico in decomposizione che cattura e non lascia più
La recensione di Dostoevskij, la prima serie tv dei Fratelli D'Innocenzo al cinema in due parti dall'11 al 17 luglio grazie a Vision Distribution.
Se ogni regista rende lo spettatore partecipe del suo mondo, Dostoevskij è un’immersione radicale nell’animo più oscuro dei fratelli D’Innocenzo. Un’opera che va vissuta a partire dai suoi ambienti: luoghi fatiscenti dove le pareti sembrano impregnate di dolore. Case vuote e sporche. Ombre del 16mm da cui spuntano volti appostati in attesa dell’assassino. Dostoevskij non racconta solo di una caccia all’uomo, un killer che lascia delle lettere accanto alle sue vittime, ma di un dialogo letterario e umano tra il poliziotto Enzo Vitello e la parte oscura di sé e degli altri.
Un noir che assomiglia a molti altri, ma che al contempo non potrebbe essere fatto da nessun altro e in nessun altro luogo. Ci sono spazi immensi che permettono zoom vertiginosi, vicoli vuoti e silenzi rotti dal rumore degli omicidi. Un cinema ludido, sporco, corrotto, dove la pellicola stessa con cui è stato girato sembra essere stata ritrovata nello scantinato di un serial killer. Sembra di essere dentro un corpo (filmico) in decomposizione, da cui si vorrebbe uscire, ma dove “la puzza di male” si è attaccata ai personaggi, e quindi agli spettatori.
È così rivoltante l’aria che respirano i poliziotti, incapaci di seguire le piste lasciate dal killer, che anche nei momenti meno riusciti di Dostoevskij (ci sono alcuni passaggi ridondanti, altri che risultano leggermente più artificiali) si vorrebbe continuare a naufragare insieme ai personaggi. La narrazione è più debole nei descrivere i rapporti famigliari, con alcune sequenze dalla simbologia troppo marcata (come la regressione infantile nel parco giochi), mentre è rigorosissima nel thriller che si abbandona all’horror. La somma è maggiore delle singole parti.
I D’Innocenzo abbondano di stile, con soluzioni di montaggio alla Nouvelle Vague, con tagli sulla parola o, al contrario, stacchi di montaggio in sovrapposizione. Ci sono momenti pazzeschi di messa in scena nelle piccole cose: una cinepresa che seguendo i personaggi supera ostacoli che non dovrebbe essere in grado di oltrepassare, sequenze di pura tensione che finiscono con momenti di sollievo tragicamente ironico, e le lettere dell’assassino declamate ad alta voce male, saltando una riga.
Sono i dettagli che fanno l’atmosfera di Dostoevskij (che ricorda il primo Refn, quello grezzo di Pusher, ma anche Argento e Fincher), e l’atmosfera si fa senso e significato. Si intenda: Dostoevskij è per pochi, l’ennesima follia anticommerciale dei due fratelli (si concederanno mai un successo facile?), ma anche una sperimentazione con le forme della narrazione importantissimo per la nostra industria.
Il bene e il male, la giustizia pubblica e privata, l’amore e la morte sono i poli raccontati spesso dal cinema di genere. Dostoevskij non si discosta da questi temi, ma lo fa con un’interiorità diversa, quella dei suoi registi, che rendono l’opera un’anomalia imprevedibile ed imperdibile. Proprio come quella mosca che entra in scena, forse voluta o forse per caso, ma che così facendo trova una nuova prospettiva e una originalità a dei sentimenti prima di quel momento già visti in molti altri film.