Dopo il matrimonio, la recensione

Da un film che scambiava i ruoli tradizionalmente assegnati a uomini e donne nel melò, questo remake di Dopo Il Matrimonio riscambiandoli li rimette a posto

Critico e giornalista cinematografico


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Forse non era il caso di affidarlo a Bart Freundlich il remake americano di Dopo il matrimonio. Di certo non era il caso di farlo pure scrivere a lui.

La storia rimane quella dell’originale, c’è infatti un operatore in zone disagiate che si reca in un altro paese per vagliare la possibilità che una benefattrice sovvenzioni la sua impresa, proprio nei giorni in cui sta per avvenire il matrimonio della figlia, solo per scoprire che c’è qualcosa che la lega a quella famiglia di benefattori, che poi è il vero scopo per cui è stata contattata. A cambiare sono i sessi.

Il gender swap che motiva l’operazione (i principali ruoli maschili diventano femminili e viceversa) è però in questo caso un’operazione ben più delicata di quelle già viste, con scarsi risultati, in altri remake hollywoodiani (Ghostbusters, Ocean’s 8). In Dopo il matrimonio il genere stesso del film dipende dalle posizioni occupate da uomini e donne e dalle relazioni che stringono.

Susanne Bier aveva creato un film sorprendente e già aveva scambiato i sessi, attribuendo all’uomo il ruolo tradizionalmente della donna. In quel melodramma Mads Mikkelsen assorbiva su di sé il dolore, il suo era il corpo su cui si abbattevano il fato e la sventura. Di tutti i fatti e le scoperte che si susseguono le conseguenze sentimentali si abbattono su di lui. E sempre un uomo era poi il personaggio che alla fine maturava il sacrificio estremo per amore.

Ribaltando tutto questo, il remake rimette i sessi nei ruoli canonici (ma fa l’errore incomprensibile di lasciare che il matrimonio sia della figlia e non, a questo punto, del figlio della benefattrice) finendo per svelare che il film di Susanne Bier sorprendente lo era proprio per l’inconsueta posizione degli uomini. Rimessi i sessi nelle posizioni in cui si trovano in qualsiasi altro melò classico, l’intreccio comunque sorprendente è totalmente depotenziato e tutte le scene che avevano un senso con un uomo al centro escono sfiatate dalla sostituzione con una donna.

Non ne escono quindi bene nemmeno Julianne Moore e Michelle Williams, molto fuori parte e sempre in una condizione curiosa. Sanno cosa dovrebbe accadere, non vogliono interpretare le classiche donne da melò (perché tutta l’operazione ha un fare femminista) pur trovandosi dei personaggi che sono esattamente in quella posizione. Ecco perché, volendo per forza realizzare un film simile, serviva davvero un’altra penna, un’altra regia e un’altra idea di cinema, molto più complessa, profonda e strutturata.

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