Don't Worry Darling, la recensione

Una storia di anni '50 e mistero è svelata in modi così convenzionali che anche l'idea più intelligente si spegne nel trionfo del banale

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Don't Worry Darling, il film di Olivia Wilde in concorso a Venezia79

Ci sono due mitologie legate agli anni ‘50 americani: quella dell’età dell’oro, il periodo in cui lo spirito americano era al suo livello più alto e il paese viveva di una specie di innocenza provinciale; e quella degli anni ‘50 come territorio principe dell’ipocrisia, paradiso di facciata che nasconde il turpe e disturbante, lo squilibrio tra ruoli, la meschinità e la sopraffazione. Se la prima mitologia è spesso forte nelle persone che quegli anni li hanno vissuti o quasi (Ritorno al futuro è il primo esportatore di quell’idea), la seconda è molto più forte oggi e anche le produzioni meno arrabbiate (come La fantastica signora Maisel) li dipingono come un tempo di ipocrisia e squilibri.

Olivia Wilde fa degli anni ‘50 un segno. Il suo secondo film da regista sceglie quell’epoca e quel contesto tra i molti possibili proprio perché è buono per rappresentare quanto di più falso e ipocrita possa esistere. Lo capiamo subito quando la vita dei coniugi protagonisti è raccontata con toni aurei, quando i rapporti con i vicini sono troppo cordiali e al mattino le macchine dei mariti che vanno al lavoro si muovono tutte insieme. Come capiamo subito che c’è un mistero in questa pacifica cittadina. Assieme a questo capiamo però che Don’t Worry Darling non sarà un film sottile, anzi. La maniera dozzinale con la quale è introdotta la dimensione misteriosa, con musica inquietante e le persone che si chiedono “Perché siamo qui?” con uno sguardo allucinato da Noi di Jordan Peele, è veramente il lavoro minimo sulla messa in scena e massimo sulla copia di altro.

Il caos è nemico del progresso, c’è bellezza nella simmetria e altri assunti del genere sono il mantra con il quale il direttore dell’azienda in cui lavorano tutti gli uomini di quella comunità parla con frasi da setta. Perché c’è anche questo in Don’t Worry Darling, l’America delle sette che promettono una vita diversa, creano comunità e sradicano persone. Tutto accennato però, il vero tema sarà ancora un altro, più vicino ai mutati rapporti tra sessi e al nuovo ruolo della donna, ci vorrà del tempo per scoprirlo. E, incredibile a dirsi, il principio che c’è dietro alla scoperta del mistero, una volta svelato, non sarebbe nemmeno male, a saperci fare qualcosa!

Sarà una costante lungo il film. Olivia Wilde sembra replicare tutto quello che è assodato nel linguaggio cinematografico americano, selezionando sempre le soluzioni più dirette e semplici (la nuova arrivata vestita di bianco quando tutte sono vestite di nero, un altro vestito bianco più avanti sporcato di sangue per accrescerne il valore simbolico). Con questo armamentario semplice però Don’t Worry Darling non fa un lavoro complesso, anzi. Più il film avanza e svela la sua realtà, più sembra che la recitazione si faccia dozzinale e scarsamente curata e che la messa in scena regredisca fino ad un finale dalle soluzioni quantomeno discutibili.

Ma come si può davvero pretendere che un film che sembra fatto per obbedire a tutte le regole invece di giocarci, scrivere le proprie o almeno muoversi dentro di esse, possa onestamente elaborare dei concetti che non siano innocui, già accettati e in linea di massima già sentiti?

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