Don't Move, la recensione: la premessa horror è interessante ma rischia di limitare il film

L'horror prodotto da Sam Raimi ha pregi e difetti: sì a un certo realismo, no alla messa in scena monotona e a una protagonista "inerte".

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Una ragazza che ha perso il figlio sta per suicidarsi buttandosi in un dirupo. Un ragazzo che passa da quelle parti la convince a non saltare. Potrebbe essere l'inizio di una storia d'amore in stile Titanic. Invece il giovane è uno psicopatico che vuole ucciderla. Lei si libera, ma lui l'ha drogata con un anestetico che in pochi minuti la paralizza.

È vero: a un certo punto la protagonista scappando lascia cadere un coltello, unica arma a sua disposizione. Ma a parte questo Don't Move è un film piacevolmente lontano dallo stereotipo per cui i personaggi degli horror si comportano in modo idiota e/o suicida. L'eroina è immobilizzata (può vedere, sentire e comunicare sbattendo le palpebre); sulla strada per ucciderla il killer finge che sia ubriaca o narcolettica, cosa che in altri film funzionerebbe: qui invece non gli crede nessuno. Un giardiniere, una donna a un distributore di benzina, un poliziotto - tutti intuiscono che qualcosa non va e gli mettono i bastoni fra le ruote.

Questo livello di diffidenza e realismo delle reazioni umane è ciò che rende rinfrescante Don't Move come cinema di genere. Il film trova il suo passo nella parte centrale, basata sulla sfida tra il maniaco e le persone che gli si parano davanti. Questi confronti sono gestiti con intelligenza, evitando quel senso di superiorità spettatoriale che porta a non credere nell'ingenuità dei personaggi in scena e rende difficile la sospensione dell'incredulità.

Dove il film invece scricchiola è nella gestione della protagonista, come detto immobilizzata per gran parte del film. È un problema narrativo, perché non è per niente facile costruire una messa in scena che scongiuri la monotonia di un personaggio totalmente passivo, perlopiù spettatore e a cui le cose "succedono intorno" anziché procedere dalle sue azioni. Una sfida che Don't Move perde, calando di tensione tutte le volte che la protagonista resta sola col killer e che viene a mancare un ostacolo esterno.

Ma è anche un problema di significato: come in molti horror contemporanei (da Babadook in poi) viene suggerito che l'incubo del rapimento sia anche una metafora dello stato d'animo dell'eroina, in questo caso del lutto da superare; ma di nuovo i realizzatori non riescono ad aggirare il limite che l'immobilità della protagonista comporta per la sua caratterizzazione. Non sappiamo chi sia, cosa provi al di là della paura e del dato iniziale della perdita del figlio; in breve, non siamo investiti nel suo personaggio. E così quando il finale di Don't Move suggerisce in modo abbastanza enfatico che c'è stata una catarsi, una grande evoluzione, si fa molta fatica a crederci. 

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