Don't Make Me Go, la recensione

Tra il road movie e un doppio coming of age, Don't Make Me Go propone una storia commovente, ma mai sorprendente. La recensione

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La nostra recensione di Don't Make Me Go, disponibile dal 15 luglio su Prime Video

"Non amerete il finale, ma penso che questa storia vi piacerà", dice all’inizio di Don't Make Me Go la voce narrante della coprotagonista Wally. Una chiara dichiarazione d’intenti che scopriremo sarà tutto sommato rispettata: la conclusione risulterà assai inaspettata e quello che la precede gradevole. Anche se non abbastanza per rendere il film complessivamente riuscito o del tutto soddisfacente.

Più che la regista Hannah Marks (giovane attrice qui al terzo film dietro la macchina da presa) l’autrice di Don't Make Me Go sembra essere la sua sceneggiatrice, Vera Herbert, già nel team di This is Us. Proprio dalla serie NBC ritroviamo l’abilità nel dipingere relazione famigliari e il focus sui sentimenti, con un clima commovente che stempera anche i momenti più tragici. Così, in Don’t Make Me Go, ad ogni screzio, ad ogni momento complicato ne segue uno divertente o di rilassamento e il clima generale è piuttosto confortante per lo spettatore. Nel lungometraggio presentato al Festival di Tribeca John Cho interpreta Max, un padre separato a cui viene diagnosticato un tumore al cervello. Consapevole di avere non più di un anno di vita, decide allora di usare il proprio tempo per fare un viaggio con la figlia sedicenne Wally (Mia Isaac) con la scusa di recarsi ad una rimpatriata di compagni del college. Ma la vera ragione è farla incontrare con la madre, che la ragazza non ha mai conosciuto.

In questa dimensione, la storia propone dunque un road movie con all'interno un (doppio) coming of age. Nel loro viaggio, i due protagonisti attraversano un buon pezzo degli Stati Uniti, dagli aridi paesaggi texani alle assolate spiagge della Florida, ma il contesto sociale/naturale resta sempre sullo sfondo, perché l'interesse è solo per il rapporto padre/figlia e la parabola a cui andranno incontro durante il tragitto, in cui si ripercorrono molte delle tappe a cui opere simili ci hanno abituati. L'ombra della morte imminente porta Max a riflettere sulla sua vita passata e sui suoi errori, con l’intenzione di sfruttare bene il poco tempo a disposizione, insegnando alla figlia quanto le sarà necessario per quando non ci sarà più. Nel confronto con lei, nel piccolo abitacolo della auto, i due impareranno a conoscersi meglio, ad aprirsi a vicenda. L'uomo appare come il genitore inflessibile, portatore della propria esperienza di vita, preoccupato del futuro della figlia. Questa invece sprigiona un'energia incontenibile, una voglia di fare che però nasconde anche molte difficoltà. Il film cerca poi una propria strada nel modo in cui ci mostra personaggi imperfetti e sinceri che affrontano entrambi un percorso di crescita: tanto quanto lei imparerà da lui, lui da lei. Scopriremo come anche il padre non è certo un modello, come l'incertezza della giovinezza sembra specchiarsi in quella della mezza età, fino ad accennare un ribaltamento dei ruoli, quando sarà la figlia ad apparire quella matura.

Il modo in cui il film racconta le sue vicende è allora assai accurato e sentito, ma risente per come, piuttosto che puntare sui suoi aspetti più originali, preferisce appoggiarsi a un intreccio e uno scioglimento abbastanza prevedibile, ricorrendo un po' troppo alle scene madri, come un momento intimo sotto le stelle, o a facili ammiccamenti, come l'utilizzo in colonna sonora di The Passenger di Iggy Pop. In conclusione, dunque, Don't Make Me Go mantiene le proprie promesse, senza però mai deviare veramente da queste, neanche nel colpo di scena finale, certamente inaspettato ma che serve solamente a portare la storia dove già era chiaro che andasse.

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