Donnie Darko
Ci sono film belli. Ci sono film bellissimi. E poi ci sono film che ti fanno pensare che il cinema sia la cosa più bella del mondo. Donnie Darko è uno di questi...
Siamo di fronte ad un incredibile mix di generi e pellicole. Apparentemente, il filone dovrebbe essere quello dei teen movie adolescenziali, sulla scia di pellicole come Fuori di testa e Breakfast Club, dove a predominare non era tanto la ribellione, quanto lo spleen di ragazzi che si sentivano tagliati fuori dalla società . Gli elementi ci sono tutti: un ragazzo disadattato, una ragazza “difficile”, problemi in famiglia (affrontati peraltro con grande realismo, parolacce comprese) e compagni di scuola che lo minacciano. E, in effetti, l’incredibile successo raggiunto dalla pellicola dopo la sua uscita (fallimentare) nelle sale ha molto a che fare con un pubblico di giovanissimi che si identifica nei personaggi che compaiono sullo schermo.
La lista dei film a cui si è ispirato Kelly è notevole (chi è interessato può vedere una corposa lista qui) e non è il caso di parlarne troppo diffusamente per non rovinare la sorpresa.
Ma un paio di citazioni mi hanno colpito molto. L’idea del coniglio gigante che ossessiona il protagonista è chiaramente ripresa da Harvey, un film del 1950 in cui James Stewart era convinto di avere la stessa visione (anche se, in quel caso, l’animale non compariva mai sullo schermo ed era quindi chiaramente frutto dell’immaginazione).
E l’idea di riprendere una celebre scena di Un lupo mannaro americano a Londra è assolutamente perfetta e indicata.
Ma non è tanto (e solo) una questione di citazionismo fine a se stesso. Richard Kelly sembra avere ben presente la lezione del free cinema e della nouvelle vague, tanto da dare l’impressione a tratti di realizzare un magico connubio tra la malinconia dolce-amara di Truffaut e la libertà espressiva funambolica di Richard Lester.
Insomma, Donnie Darko contiene tanti momenti memorabili. Un geniale dialogo sui puffi, un dibattito su Graham Greene demenziale (in cui scopriamo cosa avrebbe scritto l’autore di Un americano tranquillo...) e alcuni esilaranti sedute di Donnie entrano decisamente nella nostra memoria collettiva.
Ma contemporaneamente ci rimane anche un affresco originalissimo dell’ipocrisia della piccola cittadina americana, che preferisce graffiare a fondo (come l’Alexander Payne di Election) piuttosto che urlare come fanno tanti. D’altronde, i miti del luogo sono decisamente discutibili, mentre le persone valide vengono emarginate.
E per chi vuole fare cinema, questo film è da prendere come un punto di riferimento. Un venticinquenne che riesce a convincere uno studio di Hollywood ad investire su un progetto folle e (apparentemente) senza mercato, grazie anche all’aiuto di Drew Barrymore e Jason Schwartzman (che avrebbe dovuto interpretare il ruolo principale, poi andato a Jake Gyllenhaal). Un budget risicato (4,5 milioni), ma che ha comunque permesso di realizzare un’opera che sembra costare almeno il triplo, con effetti speciali assolutamente degnissimi.
E un cast notevolissimo, in cui spicca la coppia rivelazione Jake Gyllenhaal-Jena Malone, ma che viene supportata benissimo da tutto il resto dell’ensemble.
E vogliamo parlare della colonna sonora, che contiene dei classici anni ‘80 e soprattutto una cover strepitosa di Mad World dei Tears for Fears?
Qualcuno, sicuramente, si lamenterà dell’incomprensibilità del finale. Beh, è vero che le chiavi di lettura sono molteplici, ma non per quanto riguarda la cosa più importante, ossia le scelte dei protagonisti, che sono assolutamente inequivocabili. E poi, stiamo parlando di viaggi nel tempo e conigli giganti, non vorrete che sia tutto razionale, vero?
”And I find it kind of funny, And I find it kind of sad, the dreams in which I’m dying, are the best I’ve ever had”