Dolittle, la recensione
Privo di personalità, così generico da non sembrare nemmeno un primo episodio di un franchise, Dolittle è un adattamento fiacco e stanco
DOLITTLE, DI STEPHEN GAGHAN: LA RECENSIONE
Il modello non dichiarato di Dolittle non sono tanto i romanzi per bambini in cui è comparso per la prima volta il personaggio e di certo non gli adattamenti precedenti a questo (a parte quello diretto da Richard Fleischer del ‘67), semmai i film in cui un personaggio in carne e ossa gestisce un’ingestibile banda di personaggi in computer grafica, quello che nell’era moderna è stato canonizzato dal successo di Neil Patrick Harris con I Puffi. A quel modello, questo film diretto dal regista di Syriana e Gold nonché sceneggiatore di Traffic (?!) non aggiunge molto se non una patina di esotismo avventuroso veramente blanda.
Se in Sherlock Holmes aveva creato un personaggio audace e innovativo, interpretabile in modo credibile solo da lui perché molto aderente a quelle che sono le sue caratteristiche come attore, qui anima un personaggio interpretabile da chiunque. Il Dr. Dolittle di Eddie Murphy, sebbene preso in avventure ben più urbane, aveva più personalità. Così anche tutte le intenzioni di world building che paiono essere il fine principale del film (costruire e fondare una mitologia che possa essere sfruttata in più seguiti) si regge su uno stuzzicadenti, sull’esile interpretazione del protagonista assoluto.