Dolceroma, la recensione

Grottesco, iperbolico, esagerato e terribilmente vitale il produttore di Barbareschi tiene in vita tutto Dolceroma, che poi si sgonfia quando non è in scena lui

Critico e giornalista cinematografico


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La prima sorpresa di Dolceroma è che è una commedia. Da Fabio Resinaro, che con Fabio Guaglione ha girato film come Mine e prodotto uno come Ride, era facile aspettarsi altro, invece questa volta da solo (con Fausto Brizzi come regista di seconda unità!) ha girato una commedia, anche se non una come le altre. Dolceroma è una commedia nello stile di Alex de la Iglesia, cioè una in cui l’azione è molto importante. Importante sia nel classico finale da de la Iglesia (apocalittico, esagerato, clamoroso) sia nel ritmo interno alle scene, che infine nella caratterizzazione dei personaggi che non sono i tipi da commedia ma quelli da action movie. Così facendo Resinaro (che ha adattato Dormiremo Da Vecchi, il libro di Pino Corrias) con Dolceroma crea una delle migliori grandi allegorie dell’industria culturale commerciale. Anche se non funziona sempre.

Dopo un inizio fulminante, pienamente nella tradizione dei film sul fare film deformato dalla lente del grottesco e dell’eccesso, Dolceroma infatti si spegne un po’ assieme al suo vero protagonista, non lo sceneggiatore di Lorenzo Richelmy disperato e in cerca di qualcuno che gli produca il film ma il produttore di Luca Barbareschi, ricchissimo e affermato che decide di esercitare il suo potere su questo sceneggiatore, imporgli un’attrice e un regista, peggiorando tutto, svilendo tutto e trascinandolo nel dorato e squallido mondo della produzione romana.

Quando il ritmo incalza e costumi, trucco, colori, recitazione e dialoghi complottano tra il cool e il ridicolo con una passione condivisa assieme al pubblico per la creazione di una grande universo narrativo, Dolceroma è un grande film. Quando invece indugia e la recitazione per prima allenta la presa, rallenta il ritmo e non sostiene gli standard altissimi impostati all’inizio. Paradossalmente sono i momenti più seri quelli in cui il film sembra più povero ed esile, mentre quelli in cui preme sul grottesco sono quelli in cui la ricchezza di livelli di lettura alimenta il godimento e l’idea che i paradossi su schermo siano solo fratelli dei paradossi reali.

Ed è innegabile che ci sia Luca Barbareschi al centro di tutto questo. Non solo il suo personaggio, ma proprio la sua presenza. Il produttore spietato, fanfarone, ignorante, capace di sopravvivere a tutto, di adattarsi a tutto, incrollabile, insuperabile in conversazione, infaticabile, impossibile da prendere come modello di riferimento è un gioiello filmico a partire dal look fino all’ultima delle espressioni. Ogni altro attore entri nell’orbita di Barbareschi riceve una spinta che lo fa girare a velocità doppia rispetto alle scene in cui manca. Capace di fare il vero lavoro di un attore, cioè lavorare su sensazioni e impressioni anche contrastanti per dargli una forma riconoscibile da tutti, Barbareschi ha qui l’occasione di unire il duro e il tenero, il pietoso e il grandioso, diventando il simbolo della visione che Dolceroma ha dell’industria. È un po’ Pietro Valsecchi un po’ Gianluca Vacchi, ricco in maniere insensate e avverso ad ogni forma di approfondimento, fiducioso nel solo intuito, grandioso ed energico ma anche pietoso e piccino, ci sono un milione di aggettivi che si potrebbero usare per descriverlo, molti di senso opposto ma Barbareschi li fa convivere e anche di più: gli dà un senso.

Gigantesco villain da battere che nel finale diventerà esattamente una sorta di boss di fine livello, questo produttore grandioso e decadente è il termometro di un film che quando lo perde o ne perde l’energia fatica a tenersi in vita. Quando verrà il momento di tendere la trama, spostarsi dalla commedia all’intreccio da thriller con furti, omicidi, sparizioni e inseguimenti, Dolceroma non riuscirà a mantenere il proprio tono, cambierà troppo e non per il meglio. Quando viene il momento di puntare sull’intreccio e non sui personaggi si sgonfia, ma tale era la spinta della prima parte che si esce dal film comunque con la testa che gira, piena di idee nuove.

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