Dogman, la recensione | Festival di Venezia

Nonostante i toni dark e giustizialisti, che ancora ricordano Joker, Dogman rimane praticamente fermo in un dramma da camera, chiuso e spaventato dalle sue stesse possibilità

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La recensione di Dogman, presentato in concorso al Festival di Venezia 2023

Si dipinge la faccia di bianco allo specchio come il Joker di Todd Phillips, pronto ad entrare in scena in quella tragedia che ha trasformato in uno spettacolo: il Dogman di Luc Besson, Doug (Caleb Landry Jones), è ancora un individuo fragile tra i tanti che Besson ha messo in scena lungo la sua carriera (Léon, Nikita, Il quinto elemento) e proprio come il villain di Joaquin Phoenix lotta per affermare nel mondo un’immagine che sia di sua scelta. L’identità come un riflesso, un travestimento, una mise en scéne. Peccato che tutti questi spunti fatichino parecchio a farsi discorso, mentre il film si perde in un passato ossessionante che fagocita tutto il resto - film e personaggio.

Perché del pasato si parla, Dogman comincia in medias res, quasi alla fine del racconto: Doug viene arrestato (scopriremo poi perché) e racconta alla psichiatra Evelyn (Jojo T. Gibbs) della sua infanzia violenta e traumatica, salvata soltanto dall’amore incondizionato dei cani tra cui a lungo è stato rinchiuso, proprio in una gabbia. Ora è adulto e anche se piuttosto ben integrato, vive solo con decine di cani in un luogo abbandonato, animato soltanto dall’amore per lo spettacolo, che sfoga sul palco in un drag show ogni venerdì sera.

Non è una novità che Besson si prenda molto tempo per costruire le premesse di un suo film, tuttavia Dogman non riesce mai ad andare oltre il tempo passato e a portare le ferite di Doug alle loro estreme conseguenze nel tempo presente (quello vero, del film). Nonostante i toni dark e giustizialisti, che ancora ricordano Joker (ma di cui non ha affatto il respiro narrativo, che qui è a dir poco contenuto, mai un vero j’accuse alla società), Dogman rimane praticamente fermo in un dramma da camera, chiuso e spaventato dalle sue stesse possibilità. Besson di fatto si limita a raccontarci come Doug sia diventato un outcast, e per quanto il personaggio sia affascinante il film non ha mai le forze di mostrare a cosa questo può portare, prendendo sempre la strada più ovvia, accomodante, la meno dura.

Anche il rapporto tra Doug e i suoi cani, per quanto sia evidente che Besson voglia ritrarli sempre in senso di bontà e compassione (e infatti li riprende quasi sempre immobili, ne osserva lo sguardo tenero), è poco esplorato. Ne obbediscono agli ordini in modo surreale, eppure questo aspetto è totalmente normalizzato, mai questionato. 

D’altro canto, il film non ha nemmeno lo spiritualismo che un finale eccessivamente simbolico vorrebbe suggerire. Disabile e queer, Doug ha di fatto sempre subito ma la sua “croce” è diventata fin da subito la sua forza, è un personaggio svantaggiato ma pieno di dignità, di autodeterminazione, di grazia. Diviso e piuttosto confuso tra il paradosso cristiano del libero arbitrio e invece uno specismo mai celato (per cui i cani sono sempre definiti da Doug come creature davvero capaci di amare in modo puro, diversamente dagli esseri umani), Dogman è narrativamente frustrante nel suo continuo suggerimento di una futura resa dei conti con Dio, come a rimettere per l’ennesima volta il giudizio sul personaggio a una forza esterna e indefinita.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Dogman? Scrivetelo nei commenti!

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