Dogman, la recensione | Festival di Venezia
Nonostante i toni dark e giustizialisti, che ancora ricordano Joker, Dogman rimane praticamente fermo in un dramma da camera, chiuso e spaventato dalle sue stesse possibilità
La recensione di Dogman, presentato in concorso al Festival di Venezia 2023
Perché del pasato si parla, Dogman comincia in medias res, quasi alla fine del racconto: Doug viene arrestato (scopriremo poi perché) e racconta alla psichiatra Evelyn (Jojo T. Gibbs) della sua infanzia violenta e traumatica, salvata soltanto dall’amore incondizionato dei cani tra cui a lungo è stato rinchiuso, proprio in una gabbia. Ora è adulto e anche se piuttosto ben integrato, vive solo con decine di cani in un luogo abbandonato, animato soltanto dall’amore per lo spettacolo, che sfoga sul palco in un drag show ogni venerdì sera.
Anche il rapporto tra Doug e i suoi cani, per quanto sia evidente che Besson voglia ritrarli sempre in senso di bontà e compassione (e infatti li riprende quasi sempre immobili, ne osserva lo sguardo tenero), è poco esplorato. Ne obbediscono agli ordini in modo surreale, eppure questo aspetto è totalmente normalizzato, mai questionato.
D’altro canto, il film non ha nemmeno lo spiritualismo che un finale eccessivamente simbolico vorrebbe suggerire. Disabile e queer, Doug ha di fatto sempre subito ma la sua “croce” è diventata fin da subito la sua forza, è un personaggio svantaggiato ma pieno di dignità, di autodeterminazione, di grazia. Diviso e piuttosto confuso tra il paradosso cristiano del libero arbitrio e invece uno specismo mai celato (per cui i cani sono sempre definiti da Doug come creature davvero capaci di amare in modo puro, diversamente dagli esseri umani), Dogman è narrativamente frustrante nel suo continuo suggerimento di una futura resa dei conti con Dio, come a rimettere per l’ennesima volta il giudizio sul personaggio a una forza esterna e indefinita.
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