Dodici, Zerocalcare, la recensione

Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.


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Una storia di zombie, scritta e disegnata da Zerocalcare. Questo probabilmente lo sapete già. La prima storia di genere di un autore che ci ha abituati al racconto del suo mondo personale e quotidiano, l'immaginario della generazione degli anni Ottanta, sperduta, delusa, viziata, ma combattiva e incazzata, il suo limbo anni-Dieci-del-Duemila tra gioventù ed età adulta. E invece no. L'appartamento di Zerocalcare non è più teatro del suo mondo interiore che si manifesta in forma di armadilli. In quell'appartamento stanno assediati lui, il Secco (ovvero il suo migliore amico di sempre), Cinghiale (sodale dalla vita sessuale esuberante e con un rotolo di sentimenti a grana grossa) e Katja (combattiva ragazza capitata lì per caso, con un segreto da nascondere). Fuori, l'apocalisse zombie ha preso possesso di Rebibbia, il quartiere di Roma dove Zero e i suoi amici sono cresciuti. Pochi superstiti, comunicazioni scarse e inefficienti, nessun piano preciso di sopravvivenza.

Un piano di fuga c'è, in realtà. Er Paturnia, ex bullo del palazzo, vuole requisire un pullman e andare verso Roma nord, dove pare ci siano sacche di resistenza. Gli zombie, che siano vittima di un contagio o di un capriccio della Morte incarnata, sono dappertutto ormai. Rebibbia è un quartiere morto. Non che sia mai stato troppo vivo. Ma era il loro. Va abbandonato, senza guardarsi indietro. Il piano di fuga va male, Zero e i suoi vengono abbandonati dai fuggiaschi. In più, Zerocalcare è stato vittima di un'aggressione. Colpevole ignoto. Gli altri lo trovano svenuto in cucina, perde sangue dalla testa. L'autobus è andato. Unica speranza: recuperare l'auto di Ermete (che sta all'angolo), fuggire con essa, salvare la pelle e trovare un medico per Zero. Tra combattimenti all'arma bianca coi vicini che vogliono mangiarti il cervello.

Un'avventura. E il protagonista non è Zerocalcare. Zero è la vittima. Secco e Katja (non avrete fatto affidamento su Cinghiale, spero?) attraversano il quartiere. Lui forte di visioni multiple di Ken il Guerriero e i Cavalieri dello Zodiaco, che gli hanno insegnato che la cooperazione è da fricchettoni e che il sacrificio ti rende un vero uomo, lei che maneggia una spada alla Berserk o Final Fantasy con disinvoltura preoccupante. E intanto Zero sta morendo. Non in silenzio. No. Ripensa alla sua vita, a Rebibbia. A questo quartiere quasi invisibile nella capitale, definito dalla normalità noiosa e lenta della periferia, conservata dall'incedere incerto degli abitanti non-morti.

Dodici è questo: metà avventura e metà affresco di Rebibbia. Un affresco dipinto a là Zerocalcare. Con gli stessi toni malinconici, le paure post-adolescenziali, lo sguardo pieno di dubbi e di sensibilità del tutto particolare a cui Zero ci ha abituati. Un mondo intero in un quartiere, che ora sta crollando su se stesso. Non mancano nemmeno le gag tipiche del blog, de La profezia dell'Armadillo, di Un Polpo alla Gola. I personaggi della pop culture anni Ottanta, le personificazioni nerd di sentimenti e convinzioni del Secco, che si scontrano con la pragmaticità di Katja, donna tutta d'un pezzo e persona normale (sì, ma che ci faceva a Rebibbia quando è scoppiato il finimondo?). Lo stile grafico e quello comico di Zero sono perfettamente conservati all'interno di Dodici.

Che però è un'avventura vera. Con un impianto narrativo pure complesso, in cui convivono i film di Romero, i riferimenti doverosi a The Walking Dead e il cinema di Nolan. Sì, il Nolan di Memento, con i due piani narrativi della storia che si inseguono, uno a colori e l'altro in bianco e nero, per scortarci verso il finale. Inframmezzati dal flusso di coscienza di uno Zerocalcare morente.

Insomma, tanta carne al fuoco. Ma questo non è Un Polpo alla Gola e Zerocalcare non è quello di un anno fa. Un autore cresciuto e più maturo, che riesce a non perdersi nelle pieghe della narrazione. Zero è riuscito, in Dodici, a integrare storia e momenti comici, utilizzando i secondi per definire i personaggi, per farci entrare nella psicologia folle (ma dannatamente simile alla nostra) del Secco e di un'intera generazione che ha formato i suoi valori sulla cultura nerd. Regalandoci, in più, un ritratto struggente del suo quartiere e ricordandoci perché Zerocalcare è uno dei più grandi successi del fumetto italiano contemporaneo.

Ieri, in coda fuori dalla fumetteria milanese dove si distribuiva il volume in anteprima, un'amica poco coinvolta nel mondo del fumetto mi dice che "le cose che scrive Zerocalcare le ho già pensate io, o le avrei volute scrivere io, uguali". Una cosa simile l'ho pensata leggendo le considerazioni contenute in Dodici sull'appartenenza. A un luogo, una città, un quartiere. Sul coraggio di andarsene, ammesso che di coraggio si tratti. Anche in un'avventura zombie apocalypse, Zerocalcare trova il modo di essere rappresentativo dei sentimenti. Non teme la sensibilità e ha trovato un suo personale gioco di metafore, mistificazioni e personificazioni per far passare concetti di una certa profondità per delle idiozie giocose. Zerocalcare è Peter Gabriel che si traveste da statua della libertà per vincere la paura del palco, si maschera per poter essere sincero. E, così facendo, lo è fino in fondo. Non è poco. Soprattutto se hai il talento artistico, la riconoscibilità di stile e ora anche la sapienza narrativa di Zerocalcare. Ottimo lavoro.

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