Django Unchained, la recensione

Diviso tra grandi spazi ariosi e i soliti momenti di dialogo in interno, l'ultimo film di Tarantino non è tutto sui medesimi livelli. Ma quando ingrana, come sempre, non ce n'è per nessuno...

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Per la prima volta costretto a passare diversi minuti all'esterno Tarantino svela una sua, insospettabile debolezza. Straordinario narratore di interni (come nessuno, oggi, e come pochi, ieri), all'aperto è a disagio.

Non c'è un momento di Django Unchained che non porti impressa la sua raffinatezza di tocco tuttavia a contatto con gli ampi spazi Tarantino non sembra se stesso, perde la sua voce personale. Di contro come la scena si sposta tra 4 pareti torna a dare il meglio, per questo la prima lunga parte di questo nuovo film, quella che funziona da introduzione, appare come il suo exploit peggiore, di contro non appena inizia la seconda già con una lunga sessione di dialogo a tavola si rivede il Tarantino migliore, quello capace di sintetizzare tutto il film (e se stesso) con uno spruzzo di sangue di schiavista ucciso che bagna di rosso il cotone, come nei film di samurai il sangue macchia la neve. La schiavitù, la violenza, la vendetta, l'America, il west (ma all'italiana) e l'asia.

Dopo Bastardi senza gloria altri oppressi, che gli stanno ancora più a cuore. Una trama lineare fatta di astuzie, stratagemmi (come negli spaghetti western) e impennate di violenza che, come nei momenti migliori di Kill Bill fondono eccitazione, soddisfazione ed umorismo. Tanto più una morte è sentita e cruciale per la vendetta, tanto meglio sarà mostrata, tanto più è bastardo il deceduto, tanto più sangue schizzerà in maniera iperbolica. La violenza è sempre stata una metafora forte e importante per lui, un rimpiazzo per i sentimenti, l'umore e il tono. Qui non si fa eccezione.

E per la prima volta dopo 8 straordinari film Quentin Tarantino sembra avere anche una morale, un fine più alto e nobile del puro divertimento raffinato di cui è maestro. Per la prima volta un suo personaggio è mosso seriamente da un ideale che cresce e matura dentro di sè, con un'onestà mai così convincente. Per la prima volta sembra volersi sporcare le mani con l'idealismo invece che lavarsele con l'ironia (che pure non manca).

Il citazionismo marchio di fabbrica si fa più sporadico ed evidente, pare interessargli di meno, anche gli accostamenti bizzarri sono minori (quasi tutte le musiche vengono da veri spaghetti western e le poche che non lo sono come l'hip hop della sparatoria, strano a dirsi, stonano moltissimo) mentre quel che gli interessa di più è scrivere lunghissimi dialoghi, pagine di sceneggiatura eccelse e molto meno girare sequenze in cui alle parole seguono i fatti. Django Unchained è un film di vendetta ordinario quando si tratta di preparare la trama, ma diventa un'opera imprevedibile e rovente quando dagli esterni si passa agli interni, quando il lungo viaggio arriva a Candyland.

Come già si era visto in Bastardi senza gloria, la tensione è costruita attraverso un acuto gioco di psicologie e dialoghi (e non più con eventi iperbolici o piani da mettere in pratica), l'umorismo irrompe nei momenti più imprevedibili (senza mai scombussolare le carte però) e i personaggi riescono a dare il meglio di sè, rivelandosi per le creature postmoderne e sfaccettate che sono.

C'è una lotta mortale tra due mandingo, portata avanti con indicibile violenza in pochi metri quadrati dentro un rispettabile salotto, giusto per sollazzare gli schiavisti, un combattimento consumato tra tifo moderato, drink, un caminetto accesso e ossa spaccate. Un momento di cinema di un controllo e di un'inventiva unici, un grido di dolore perso tra le risate, la più grande sineddoche (paradossalmente attraverso un'iperbole) del film.

C'è un gioco di scena/fuoriscena tra la tavola in cui si mangia, la cucina in cui si prepara, un segreto e il capo degli schiavi della tenuta a fare avanti e indietro tra l'una e l'altra (la vera creatura tarantiniana del film, memorabile, mai visto prima e carismatico) che dovrebbe appartenere ad una commedia teatrale del secolo scorso ed essere condotto con tono da macchietta, mentre invece è pieno di tensione e piegato fino a centrare perfettamente la forma strana ma definita di questo film.

Materia fuori dal comune, sfide impossibili per chiunque non sappia sia scrivere che girare a simili livelli. Peccato che non tutto il film sia così.

Continua a leggere su BadTaste