Django Unchained, la recensione
Diviso tra grandi spazi ariosi e i soliti momenti di dialogo in interno, l'ultimo film di Tarantino non è tutto sui medesimi livelli. Ma quando ingrana, come sempre, non ce n'è per nessuno...
Per la prima volta costretto a passare diversi minuti all'esterno Tarantino svela una sua, insospettabile debolezza. Straordinario narratore di interni (come nessuno, oggi, e come pochi, ieri), all'aperto è a disagio.
Dopo Bastardi senza gloria altri oppressi, che gli stanno ancora più a cuore. Una trama lineare fatta di astuzie, stratagemmi (come negli spaghetti western) e impennate di violenza che, come nei momenti migliori di Kill Bill fondono eccitazione, soddisfazione ed umorismo. Tanto più una morte è sentita e cruciale per la vendetta, tanto meglio sarà mostrata, tanto più è bastardo il deceduto, tanto più sangue schizzerà in maniera iperbolica. La violenza è sempre stata una metafora forte e importante per lui, un rimpiazzo per i sentimenti, l'umore e il tono. Qui non si fa eccezione.
Il citazionismo marchio di fabbrica si fa più sporadico ed evidente, pare interessargli di meno, anche gli accostamenti bizzarri sono minori (quasi tutte le musiche vengono da veri spaghetti western e le poche che non lo sono come l'hip hop della sparatoria, strano a dirsi, stonano moltissimo) mentre quel che gli interessa di più è scrivere lunghissimi dialoghi, pagine di sceneggiatura eccelse e molto meno girare sequenze in cui alle parole seguono i fatti. Django Unchained è un film di vendetta ordinario quando si tratta di preparare la trama, ma diventa un'opera imprevedibile e rovente quando dagli esterni si passa agli interni, quando il lungo viaggio arriva a Candyland.
Come già si era visto in Bastardi senza gloria, la tensione è costruita attraverso un acuto gioco di psicologie e dialoghi (e non più con eventi iperbolici o piani da mettere in pratica), l'umorismo irrompe nei momenti più imprevedibili (senza mai scombussolare le carte però) e i personaggi riescono a dare il meglio di sè, rivelandosi per le creature postmoderne e sfaccettate che sono.
C'è una lotta mortale tra due mandingo, portata avanti con indicibile violenza in pochi metri quadrati dentro un rispettabile salotto, giusto per sollazzare gli schiavisti, un combattimento consumato tra tifo moderato, drink, un caminetto accesso e ossa spaccate. Un momento di cinema di un controllo e di un'inventiva unici, un grido di dolore perso tra le risate, la più grande sineddoche (paradossalmente attraverso un'iperbole) del film.
C'è un gioco di scena/fuoriscena tra la tavola in cui si mangia, la cucina in cui si prepara, un segreto e il capo degli schiavi della tenuta a fare avanti e indietro tra l'una e l'altra (la vera creatura tarantiniana del film, memorabile, mai visto prima e carismatico) che dovrebbe appartenere ad una commedia teatrale del secolo scorso ed essere condotto con tono da macchietta, mentre invece è pieno di tensione e piegato fino a centrare perfettamente la forma strana ma definita di questo film.
Materia fuori dal comune, sfide impossibili per chiunque non sappia sia scrivere che girare a simili livelli. Peccato che non tutto il film sia così.